venerdì 14 dicembre 2007

La prima

(D.Leg. 123/90 bischero - Nuova materia introdotta nell'ordinamento: Le fulmicotonate.)

O oggi non ti incontro una vecchina. Yoda, il mio piccolo cane giallo, le annusa i piedi. Lei, candida: "è perché ho due canini".
Io, ratto come non mai: "e io, che non sono vecchio, ne ho quattro", e le mostro fiero il dentino.

Intensità ridanciana: 83,6%.

Bolle!

Alle elementari il Crystal Ball impazzava perché con quello, e con nient'altro al mondo, ci potevi giocare e cambiare colore al mondo. Io, me lo ricordo bene, ero in quinta elementare e per l'occasione avevamo cambiato sede (le elementari non sarebbero più state dove le avevo iniziate, ma all'epoca poco me ne fregava), diventando suffisso dell'edificio delle scuole medie, cosa che già ci proiettava in dimensioni mentali più voluminose e, qua e là, peccaminose. S'era ancora bambini ma già si pensava in grande: io scoprii Giulio Verne e la possibilità di scherzare senza più innocenza. Un anno dopo, ne vado ancora fiero, il sanguinaccio delle femmine anche se, nonostante abbia avuto tutte le malattie infettive (in ordine alfabetico), quello non m'è mai venuto poi. Niente Guinness, pace oh! Seguendo la logica degli scacchi enumerata in un comma che non sto a elencare per non rovinare la fluidità di questo mio incipiente discorso metaforico, i maschi vestivano grembiuli neri e le femmine bianchi. Finezza dell'istituzione scolastica italiana per inculcare l'idea di bene e di male, di forze contrarie che si attraggono, di manicheismo, di gerarchie di potere, di ingiustizia. Ingiustizia, sì: perché i bianchi, si sa, muovono sempre per primi. A priori. Fatto che mi parve tanto esagerato da porvi autonomo rimedio, da precusore del ribellismo borghese da quattro soldi. Due le contromisure d'urto, e questa la maniera in cui agii: 1) per uscire da scuola, si doveva scendere una rampa di scale a chiocciola (ma squadrata): al che, io restai su in cima e, insieme a un amico, attesi la vittima designata. Uno, due, tre! Squirt, un bel burrino in testa alla malcapitata, tale Martina. Solo che sputai solo io, solo che il mio finto amico fece solo finta mentre io no, solo che il burrino doveva pesare più del previsto e quindi Martina se ne accorse, solo che lo disse alla maestra, solo che la maestra ebbe il malanimo di controllare, solo che, controllando, la maestra si rese conto che era tutto vero, solo che io, vispo come sempre, capii in un lampo la situazione e trascinai letteralmente via mia mamma venuta a prendermi con la scusa che volevo arrivare a casa in fretta per finire "Viaggio al centro della Terra" (un grandissimo Verne!), rendendola mia complice in fuga benché ignara, solo che credevo ingenuamente che, passato un giorno, tutti si sarebbero scordati del fattaccio, solo che così non avvenne, solo che il giorno dopo, al cospetto di mia mamma venuta ad accompagnarmi e ancora ignara (ché io, ovviamente, non avevo raccontato niente) e quindi molto stupita, la maestra mi fece una ramanzina mica da ridere e io mi sembra che piansi (ma forse, già ometto, anche no, anzi ci giurerei che è no), solo che io, per passarle la penna affinché lei mi segnasse una nota di demerito sul diario del Piemme, gliela traventai addosso (senza intenzione stavolta, giuro) e lei si imbestialì ancora di più e faceva davvero paura ma poi ritornò brava.
2) non me lo ricordo.
Il Crystal Ball impazzava e io, sempre un passo più avanti di tutti, impazzivo per Cristina, occhioni verde-adriatico su sfondo d'un rosa pancia cane da cucciolo e una criniera bionda, spesso a cavallo, che invitava precocemente al sadomaso. Tutti avevano una cotta per Francesca ma, mora, alta, taurina, già campionessa di motociclismo, io non la consideravo: del resto, ho sempre avuto un debole per le timidine, le piccoline, le puttanelle indifese insomma. Cristina e sua sorella Federica, più grande e già "madonna ma bona", che letteralmente stravedeva per me, simpa, brillante, compleannaiolo come mai più da allora. Solo che per arrivare a Federica (intanto non vedevo l'ora di arrivare alle medie ed essere grande, "adatto" a lei) dovevo raggiungere prima Cristina, così credevo. Al che era tutto uno scherzo più fantasioso e divertente dell'altro: tipo che, già amante delle linotipie a chiave, storpiavo il jingle del Crystal Ball sostituendo il nome Cristina alla parola Crystal. Da butolarsi! Fino ad arrivare al climax della mano sul sederino ancora odoroso di borotalco: Cristina era piegata in terra, buco pillonzi, per disegnare qualcosa di avanguardistico che la nostra maestra ci aveva ordinato per la sua galleria d'arte fai-da-te, e io presi tutto il coraggio a quattro mani e, spavaldo di fronte a tutti e a tutte (del resto ero quello che aveva sputato in testa a Martina!), feci la mossa di toccarle a palmo aperto le mele. Un "oooooh" generale esplose ma io, sempre pieno di self-control, mi fermai a un millimetro dall'oggetto del desiderio, ché di gentlemen il mondo non è mai pieno abbastanza. Lei capì il tutto, si alzò su e, arrossendo bambina, pure lei fece la mossa di darmi uno schiaffo, ma solo la mossa pensate un po': al che, il segnale fu chiaro e giù di lingua fino allo sfintere pancreatico.

Federica però si era già persa nella droga e nella rivendita di kalashnikov agli orfani dell'Irpinia terremotata e, avvezza alla vita rock, non le avrei più ispirato tenarume. (ma a me, tum-tu-tum!, da allora è sempre battuto forte il cuoricino, per le Cristine.)

giovedì 29 novembre 2007

Tubercolite

Io, per quanto mi riguarda, credo di averlo capito - il senso della vita, dico. No, anzi: l'ho sicuramente capito. No, anzi: lo capisco ogni giorno almeno due volte al giorno, spesso pure tre, quando va grassa quattro. Andate nelle case altrui, infilatevi in bagno e lo capirete, se quelli che vi abitano l'hanno capito - il senso della vita. Il dentifricio lo rivela; meglio, il tubetto del dentifricio. Vedete, le statistiche (mi sono informato) rivelano che il 97,6 % della popolazione mondiale, ovvero un bel po', strizza il tubetto del dentifricio a metà, spesso pure - quasi non si riesce a riferire - in cima, sulla cappella. 'Io che fòga! Io, che invece sono per il deep throat, vado alla base, immancabilmente (e ci mancherebbe), invariabilmente, pigiando su ogni piccolo, singolo residuo di pasta dentifricia. Che la guerra pòle sempre ritornare, e conviene mantenere l'improntitudine adatta. Ma è il gesto, poi, che è tutto, mica il risparmio. La gente strizza in cima, o, ripeto, ben che vada a metà, e pensa che sia normale, tale atteggiamento e la testa che l'ha materializzato. Questa è gente che, con la stessa leggerezza, se il tubetto ha il cappuccio a scatto mica lo richiude per bene (no, fa seccare tutto, è solo dentifricio in fondo, s'arcompra, i veri problemi son altri, la fame nel mondo è prioritaria, tesoro l'hai fatto il versamento all'Enpa?); gente che dà l'elemosina e vota Bacigalupo; che dice di essere ambientalista ma alla Cherokee Gran Turismo non ci rinuncia. Sono gli stessi che strizzano il dentifricio a metà o, brr, in cima e, poi, neanche lo rimettono nel bicchierino apposito, accanto allo spazzolino. Lui può stare lì, in orizzontale, sulla sporgenza di fronte allo specchio da bagno: ma che orizzontali, possibilmente freddi, ci diventino loro! Gente, gentaccia malevola, che leva la capsula ai deodoranti, prima di umettarsi, e poi mica la rimette. La lascia, pur'essa, sulla sporgenza di fronte allo specchio da bagno, presto una cloaca immonda di grumi al fluoro e di bave tricolori. Gente che ruma nelle padelle antiaderenti con i cucchiai di inox, che loro sono gente pratica, non vogliono beghe, van di fretta, son toghi loro, yuppi oh yeah! Gente già proiettata al futuro, col progresso nelle vene: il legno è anticaglia contadina, viva l'acciaio Shinobi. "Eh su dai, che vuoi che sia...": già certo, loro hanno la testa già altrove, al Biafra, alla questione del nucleare, a Madre Teresa di Timbuctù, ai potenti che hanno tutto tranne la felicità, alla colazione del Mulino Bianco. Io, che non dico di ciò che non ho sperimentato, c'ho provato, a fare lo stesso: ma niente, il cervello, dunque poi la mano, si opponeva, le sinapsi si associavano all'Anpi, i neuroni si trinceravano dietro la linea Maginot della passione, scoppiava il '48, il buttasu insomma, e alla fine si sanciva la vittoria del raziocinio sul caos. Era, ed è, giusto così. Quel dentifricio, e chi con e per lui lotta, vive, spasima, ci perde il sonno, i perdenti nati, i nerd, i fondi di bottiglia, i nani, gli ansiosi e astiosi, si secca, piglia la polvere, non protegge più lo smalto, perde l'Omega Tre, muore. Solo, sulla sporgenza di fronte allo specchio da bagno, che manda un riflesso: quello, opaco, della mia anima che ha capito il senso della vita.

Meglio della Pasta del Capitano gusto salvia e bicarbonato non esiste. Tonico e frizzante, ma leggiadro.

domenica 18 novembre 2007

Il mondo in un pugno.

Io, col fatto di essere stato un bravo chierichetto, mi sono fatto la mia prima sega pochi giorni dopo il compimento dei miei ventidue anni. Prima d'allora niente, nisba, nada, caput - lo giuro su Hitler e, volendo, sulla Stasi. Fino a tale età, per una burla subita e mai chiarita in età pre-scolare, chiamavo i misfatti manuali con il nome inappropriato ma ben più colorito di cavoletti di Bruxelles e quindi, pur facendomele, credevo ovviamente di fare altro. La mia coscienza rimaneva linda come il bucato appena steso al sole marzolino, e io ero un omino felice. Non avevo problemi di occhiaie, ci vedevo come un falchetto in cattività di Rapolano, andavo a messa anche ogni domenica, nemmeno osavo pronunciare la parola singolare femminile 'bestemmia', luogo di tautologiche perdizioni e di mise-en-abyme. Anzi, all'epoca mangiavo - che buoni! - ben più cavoletti di Bruxelles di adesso e credevo pure di essere uno degli artefici di tanta e tale prosperità, e sul mercato ortofrutticolo in generale e sulla mia tavola nello specifico. Già, perché poi, quando per sbaglio o per la foga dell'immedesimazione passavo dallo smanacciare il joystick Atari regalatomi qualche Natale prima alla regolazione della mia personale periferica, da me uscivano immancabilmente solo e sempre cavoletti di Bruxelles, annunciati da un sonoro che già all'epoca reputavo spiritosissimo: uaaaargh! Ah, questione annosa: non saprei dire, infatti, se ne producevo tanti perché ne mangiavo tanti o se, circolo virtuoso, ne mangiavo tanti proprio perché ne producevo tanti che mia mamma, dopo averne surgelati per tutto l'inverno dell'85, doveva finire per bollirli e servirli appena freschi.

A proposito: magari è per l'effetto serra o magari è perché i nazisti non hanno risparmiato nemmeno il neutrale Bruxelles, o magari chissà, ma sta di fatto che io i cavoletti non li ho più nemmeno trovati; e voi?

martedì 6 novembre 2007

Col Q, col Q!

Le fortune di una famiglia spartana e libertina quale la mia: ruttare e cureggiare non sono mai stati visti come una minaccia al buco dell'ozono. Anzi, tra i due, cosa inusuale, semmai più il ruttare veniva castigat ridendo moris che il secondo afrore. Forse perché il primo viene effettuato ad altezza viso, mentre il secondo là dabbasso non dà noia a nessuno, ancorché salga su poi, quasi a voler sfidare Dio e le sue leggi di gravità. Sarà che la mia famiglia, di generazione in generazione, è stata sempre una famigliola cara e normale, senza mai pregiudizi o timori reverenziali, ma da noi ogni "brot-rotoprot" è sempre stato salutato con un risolino degno di approvazione se non proprio di soddisfazione. Qua e là, di invidia se l'autore era stato particolarmente bravo e, duole dirlo, inimitabile; qua e là di scherno e derisione, più in generale di burla di quelle proprio ridarecce. Roba da non trattenersi. Ricordo, cronometro alla mano, un diciassette minuti e mezzo di veneficio conseguenza di una lofa di mio fratello che a tanti avrebbe dato fastidio e basta; a me fece invece crescere con un senso di inferiorità e di impotenza senza pari e che, nei giorni di luna piena, mi porto ancora dietro. La teoria è che cureggiare sia la dimostrazione lampante della più alta concezione di democrazia esistente: la cureggia, difatti, è uguale e libera per tutti, così i suoi strascichi incipienti. Tanto cureggia il nonno o il capofamiglia quanto cureggia il nipotino, in un circolo virtuoso di benessere morale e sociale. Che poi, a dirla tutta, è anche benessere fisico: l'espulsione dei gas stomato-intestinali, come si sa dai bollettini medici, evita la morte di tre mesi netti netti; e, per i fumatori, butta via la nicotina in eccesso che, altresì, formerebbe il fastidioso, parola che già mette ansia di suo, pancreas cancrenoso di brutto. Il problema principale, uno potrebbe dire, è il rispetto verso gli altri e lo stare in società.

Beh, da bravi lincolniani di ferro, noi di famiglia abbiamo sempre optato per la soluzione più consona e umilmente démodé: cazzi loro!

martedì 9 ottobre 2007

Un bacio.

Voi scrivete una missiva a una ragazza, sia pure per carta e posta tradizionali che per e-mail, e state pur certi che quella, se e quando vi risponde, chiuderà con uno schioccante "un bacio" che, smack!, schiock!, ti pare schiantarsi vivido sulla tua pelle. Un bacio, o baci, magari se è alla prima risposta sarà un abbraccio, o abbracci, ma insomma ci si gira intorno come il cane che si morde la coda. A volte pure qualche mascolo risponde così, e lì c'è da temere ché, si sa, al peggio non c'è mai fine. Questa è una delle poche regole vigenti nella vita, tanto assodata che la trovate pure, a pagina 456 comma bis, del Codice Civile. O, se non è lì, magari mi sono confuso e allora è nella prefatio al Guinness dei Primati 1988 copertina arancione. Poi, altra verità inconfutabile, vai a conoscerle realmente, carne e sanguinaccio come sono fatte, incolli la tua lingua alla loro anche contro voglia ma solo per essere rispettoso nei loro confronti e nei confronti di ciò che ti hanno scritto, e loro s'impermalosiscono pure, dandoti per tutta la passeggiata seguente le spalle, con questo maligne perché è come se stessero dicendo: "inculami", però poi siamo in strada pubblica e, in ogni caso, hanno i jeans.
Io, dico io per dare corpo alle mie testimonianze di verità, questo l'ho sempre sperimentato, fin dalla prima volta, occorsa nel lontano marzo 1992, tempo uggioso di scoperte da scuola media. Avevamo tutti, al tempo dell'inchiostro nero su bianca carta (notate il chiasmo non da poco), il pen-friend, l'amico di penna, maschio per i maschi e femmina per le femmine, che ancora, al tempo, certi tabù poi obsoleti non erano decaduti. Io, primus inter pares da sempre, ebbi una femminuccia, tale Jessica Intruglia, da un paesino australiano vicino Canberra (o era Brisbane?): i maschi con la lettera che introduceva anche il mio cognome, questa era la prassi, in Australia erano finiti e io scelsi oculatamente l'Australia perché all'epoca avevo il pallino dei canguri e degli squali e là, da che mondo e mondo, c'è la più alta concentrazione di Ayers Rock sul globo, con mia somma soddisfazione. Solo femmine, che onta!, o la solitudine dannata per l'eternità. Tanto per non sentirmi dispari rispetto agli altri, mi tagliai il dito mignolo come i samurai che devono redimersi e scelsi la prima opzione. Insomma, com'è come non è, comincio io e lei risponde subito. "A huge kiss", finisce il suo periodare incomprensibile, prima della firma con scrittura appena post-Metodo Doman. Fatto sta che la corrispondenza, a stretto giro di posta, si fa prima posta del cuore, poi sollazzo infantile, infine tresca di anime scandalose alla ricerca della tentazione della mela caduta dall'Eden già perduto. Sicché, sempre nel giro di poco, l'aborigena viene pure a trovarmi, in Italia, ma io son già tornato signorino innocente e appena cresimato. All'aeroporto, l'aspetto alla sezione bagagli non reclamati e lei appare puntuale, fatata come le bimbe nella luce squagliata delle fotografie di Hamilton. E' lì che, in ossequio alle sue tradizioni locali, esigo il bacio scritto e le caccio un poderoso incunabolo di carne nella sua dentatura piena di ferretti ortodontici e nella sua gola ancora saporosa di placenta: sono così gentile e rispettoso che le faccio, gratis, l'esame dello stato di salute del suo orgasmo clitorideo, che va bene ma potrebbe andare meglio. Al che, immediatamente, il tutto dopo una decina di minuti buoni, segno che la cosa gli era ma di molto garbata, mi stacca con una violenza primitiva e mi guarda con atavico odio intercontinentale. Il risultato è che la lingua si ammoscia e di presso il mio liquidator già carico. Cerco la dialettica sullo scontro dei popoli e sulle barriere linguistiche, ma non la capisce: capisco io, allora, che è l'ora di attuare le misure d'emergenza previste dal Mahatma Ghandi, che stimo tanto, e le mollo un manrovescio alla Gino Bartali, seccandola sul colpo. Orbata di tanto spiro come l'elmo di Scipio, per la precisione.

A quel punto ho facile gioco, nel perseguire lo scopo di tolleranza e didassi fra culture lontane, nel perlustrare il suo entroterra vaginale, ma mi sa che il Deserto del Gobi sarebbe stata materia più elastica e accogliente di quel suo schifo di fiore di carne. Aggiungi delusione alle delusioni, e la goccia trabocca dal vaso: la strappai a pezzi, come un album delle figurine, e per paura che non fosse biodegradabile la mangiai con le bustine della maionese avanzate nella tasca laterale.

domenica 23 settembre 2007

Fontina Boy fa sul serio.











Se si potessero spiegare tutti i misteri di un numero come 51.201

Drappeggiata di un velluto blu
o di un profondo rosso,
l’arancia meccanica nella tua mano quasi
si inchinava mentre mi facevi giù la testa
e fissavi, colpevole d’innocenza,
un paio di istantanee a tizi cogli
occhi spalancati chiusi.

Non mi basta più nemmeno il cinema, e
i sogni dei sogni non riesco a farli.

venerdì 3 agosto 2007

Ditale.

Nel 1991, e non è passato nemmeno tutto questo tempo, ragazzi e ragazze, in fatto di sesso, erano molto meno smaliziati. Oggi no, è tutto un dare di qua e di là; una volta, e neanche così in là con gli anni, sarà stata la Perestroijka o il KGB non so, s'era più calmi, quasi morigerati. C'erano cose da maggiorenni, non necessariamente cosacce, tipo andare all'università, e c'erano cose per ragazzetti come noi, noi nel 1991, ragazzi delle medie. Ragazzi e non più bambini, come i maestri magicamente diventati, non senza difficoltà, professori. Prodromi della perdita dell'innocenza, e della felicità - per sempre. Le cose in voga erano tante, pigliare in giro il compagno che puzzava, parlare senza sapere cosa fossero di mestruazioni, scambiarci i giochini del Sega più degli altri concorrenti, divorare horror in barba ai genitori al lavoro, cose tutte innocue, che oggi pare un'eternità, e non è invece il dopoguerra, ma fra tutte ce n'era una che era più in voga di tutte. Senza che sia mai stata teorizzata in arte, la pratica del ditalino correva di moda, nel 1991, anno delle medie, ingresso nell'età adulta, addio giostre per bambini, Topolino pussa via, che barba Jack London, Richard Scarry un coglione, il peggior periodo della vita che possa capitare, ma si capisce solo dopo, forse alcuni mai. Peggiore non significa che non fosse anche il migliore, beninteso. Il ditalino, questo dinosauro. Le dita, oggi, abituate alle comodità tattili della tastiera, non use alle asperità della penna sul foglio bianco sul banco scabro, sono deboli e non ce la farebbero, loro, le dita, a sostenere l'emulazione virile di un pistola laggiù, che oggi, precoci in tutto, società accelerata, gli si preferisce, alle dita, una volta sempre più belle e duttili inoltre. Vuoi anche, chissà, per quei ditalini fatti o, lo so che non torna, per quelli ricevuti, che qui sconti e differenze non se ne fanno.
Io, 1991, sempre allora, ebbi la fortuna di assistere a un'epifania ditalinica. Una gita di un giorno, da qualche parte in Toscana, o era altrove?, due, forse tre, magari quattro classi, un unico pullman. Corpi pigiati, umori téte-à-téte, odori come compagni di banco, indivisibili, gelosi: e là, in mezzo al pullman, ben nascosta, ma in realtà eretta come una statua di Figia, la Severi, con quella faccia suina, ripetente da lustri, più grande di tutti noi, libidinosa come poche, ché lei, più grande, la fa vedere e, alla bisogna, la dà anche. Pare a tutti, anche se io potrei smentire; alle dita di sicuro, e forse anche a qualcosa di più che lei, più grande, enorme, mitica, congelata per sempre alle medie, può. Là, in mezzo a quel pullman, magari una tendina a occultare il misfatto, sono sopra di lei, uno, due, tre, tanti, troppi, anche dita insospettabili, di miei migliori amici, gente tutta morta oggi, che non potrei guardare più con lo stesso occhio vitreo, loro dei adesso, carne contro carne, il nero, il folto là sotto, dabbasso. Un ditalino e ti pareva, nel 1991, anno in cui esplose, di aver avuto a che fare con Claudia Schiffer.

Io, di quella giornata, ricordo un vento tremendo, mi sa un maestrale, e un panino di pane al prosciutto cotto, il solito. Poco più, se non - ora che ci penso - un afrore primitivo, un umidiccio sepolcrale che, allora, come ora, non conoscevo. La generazione di oggi che racconterà?

venerdì 13 luglio 2007

L'ora degli esami.

Giugno 1994. Fra qualche giorno ho gli esami di terza media ma, come sempre, non ho paura. So tutto e di più. Un ottimo annunciato e via con le superiori, in questa trafila di esperienze che chissà che le fanno a fare, mi potrebbero dare il diploma già subito e una scocciatura per loro in meno. Che in cinque anni con me, ecco, non gli farà certo freddo. Tanto, arrivati al dunque, passo e anche parecchio bene. Gli altri ripassano a tutto spiano, c'è chi - spastico - non arriva alla "C", chi mira - invano - alla "D" di distinto, chi si accontenta - ma non gode - di quella terra di nessuna di "B"; io porto un percorso interdisciplinare che dalla geografia del Biafra circolarizza all'ottimizzazione calorica di un regime alimentare a base di Kinder Pinguì, chiosando nei dipressi di metà interrogazione sulle ambiguità gnoseologiche della politica imperialista di Otto Von Bismarck, e me la godo. L'estate dei grandi progetti si avvicina, e io la anticipo: hula-hoop e casine sugli alberi, hula-hoop e casine sugli alberi; a parte qualche perdonabilissimo gavettone alle vecchine di passaggio, di tanto in tanto, se mi vedesse Frank Gehry sarei dei suoi ora. Verso la fine di agosto è già stata pianificata la costruzione della nostra piscina, quella di Via Romagna. Con un vialetto a precederla, e avendo più grazia che cura, ci si farà pure dei soldini niente male. Ingresso e ghiaccioli tutt'uno, vi venisse un colpo quando siete in acqua!
A inizio seconda media, ho risposto a tutte le domande del ragazzo bocciato che, a turno, ci vessa ripetutamente, totalizzando uno score parecchio altino: cosa sono le mestruazioni?, chi colpiscono per lo più?, pigliano se hai già avuto la varicella?, Moana ce l'ha sfondata?, e se ti pigliano gli orecchioni mentre ce l'hai duro?, i ditalini si fanno con l'indice o con il medio?, sotto la minigonna Lisa le porterà le mutande?, hai mai buttato una penna in terra per cercare di vedere la cicala della Luzzi-madonna-la-Luzzi? Così, passato quasi un anno, mi reputo abile al grande passo e, tre giorni prima degli esami, gli orali, appena dopo qualche giorno dagli scritti, vado al sodo, incontro al massimo pericolo, con coraggio. Faccia bassa, passettini nervosi, voce innaturalmente roca, cappello, occhiali da sole, amico con la barba di supporto, affronto l'edicolante sotto casa, quello matto venuto da lontano, quello che fino all'altro ieri era un mito per avermi trovato come arretrato il Topolino 1756 che credevo esaurito e che ora appare come Minosse, feroce giudicatore di anime ancora pie e innocenti ancorché piene di ormoni e titillanti. Prendo i Grandi Classici Disney numero 50, quello con "Paperino e l'eredità di Babe", che grande storia, un Massimo De Vita da memoriale, e un numero a caso de "Le ore", fra una caterva di pagine patinate ostentanti il bengodi. Non c'è tempo per la scelta, il primo che viene deve andare bene; va bene. Pago e via di filata alla ferrovia, in mezzo ai campi, ascensione lunare, corsa agli armamenti, il petrolio della Guerra del Golfo, i gambi dei girasoli a imperlare di sangue le ginocchia implumi. Il mio amico vorrebbe sfogliare lui e allora va messo in riga: due dita a righello in mezzo all'ipofisi, la sua, e il frusc-frusc delle pagine adesso è tutto mio. Spastico! Non c'ho mai visto tanto, ma adesso non ci vedo più: fiche spanate, nere come l'universo, misteriose come l'aldilà o il primadiqua, definite come gli A4 di Educazione Tecnica già riquadrati, rigogliano dinanzi a me, incicciolite da escrescenze di carne che paiono alveoli polmonari, come quelli della scheda di approfondimento 3bis del libro di scienze, paiono rose sbocciate al sole primaverile, pocce incontrovertibili che manco a gonfiare al massimo un Tango vien della roba così, culi a mandolino che Ligeti se li sogna la notte e a noi ci fanno suonare il flauto che io ho le dita brevi e non arrivo a chiudere l'ultimo buco, labbra di velluto e il Tegolino è già ricordo alla pari degli omogeneizzati. Stiamo tre ore lì, sette trenini del Casentino passati fischiando, fa quasi buio, io, onnivoro, leggo anche le didascalie, le note a pié di pagina, tutto incamero, il mio amico mi balzella attorno per cercare di superare l'ostacolo oppostogli dalle mie braccia, ma io mi oppongo risolutamente: la cultura è appannaggio di pochi. Spastico, aggiungo. Poi scaviamo come matti una buca due per due, stavolta collabora anche lui finalmente, tiriamo fuori la scatola da scarpe che ci siamo portati dietro, depositiamo il tesoro, il nostro, domani torno, dopodomani pure, e sotterriamo il tutto. Quanto resisterà, maledetti agenti atmosferici che vi ho studiato ma non siete ancora sotto il mio controllo?

Infine, gli esami: io, brillante, procedo oltre con ottimo, il mio amico da settembre si chiamerà ripetente. Che spastico, non superare questi esamini. La prima sega, quella sera stessa, già rigorosamente in bagno, è stato un distinto ma, a mio avviso, è servita pure lei.

mercoledì 4 luglio 2007

Infortunio.
















Guerriero ferito,
in battaglia caduto,
ma non perito, non finito.
Quando, quando
ritornerai a sparare
spari di pace.

domenica 10 giugno 2007

Postmoderno.




















ho frammentato la prosa
e non gli ho trovato un senso
ma va bene così!?mi ha detto un critico
si arriverà a un poeta che si spiega
in postmoderno Donati analizza tautologie
a un robot che dia dignità a onde bip e a radiazioni crzz
i cortocircuiti si chiameranno poesie

domenica 13 maggio 2007

Una terribile malattia infettiva.

Milano, ferragosto del 1827. Il sole picchia dalle prime ore del giorno, la canicola non risparmia nemmeno i gatti. Alessandro Manzoni, tuttologo di professione (scrive poesie, è bonapartista, si risciacqua i panni da solo, presenzia da Funari), adesso, alle quattro spaccate e due minuti, è in piena crisi. Quella mattina stessa, sul far dell’una, ha cominciato un nuovo romanzo e, dopo 435 pagine scritte dell’Edizione Arnoldo Mondadori Scuola, non sa più andare avanti. Un blocco creativo pari a quello intestinale di due anni fa, che lo costrinse alla conversione per andare finalmente di corpo. Incontentabile, non poteva stare senza anche perché, fra un 'plop' e l’altro, lui si diverte a contrarre e dilatare stomaco e sfintere quanto basta per creare le formine e rendere artistica anche la pupù: cubettini, cerchi, integrali… Se esce il triangolo equilatero, lui è contentissimo e salva l’evento in pdf. Bastava una quintalata di prugne senza nocciolo, ma il conto aperto con il suo fruttivendolo, che il collega Marinetti avrebbe poi combinato col conto del suo gommaio sfornando in velocità il Manifesto Futurista, era già parecchio lungo; quindi via di grazia divina che quella è come le ciliegie: ne puoi chiedere finché non ti fa tappo.
Arrivato alla fase dell’epopea bauscia, Ale non sa proprio più che inventare per mettere nelle peste il suo protagonista Renzo, uno che fermo non ci sta mai: ha pensato di farlo finire nelle grinfie di un conte-vampiro della Transilvania, tanto cattivo da essere innominato, ma poi gli è sembrato di non essere sufficientemente originale. Il brogliaccio bianco che gli si para davanti lo affligge e il cattivo umore lo deprime a tal punto da dover ricorrere al suo risolviproblemi preferito. Poveretto, a che punto è arrivato. Uno straccio d’uomo. Per rincuorarsi, ogni giorno Ale è solito chiamare la diletta consorte, dallo spregevole passato protestante, per punirla retroattivamente infilando il suo pendaglio da forca – un discreto 24 cm per 9 di diametro – fra le di lei colline pettorali, proprio giù in fondo al vallone dove il versante solatìo ha la peggio su quello bacìo. Vedendolo sparire di là da quelle, Ale immagina istintivamente l’infinito e, roso dall’invidia, spinge su e giù su e giù con sempre minor moderazione. Cercando la pace che la camomilla gli nega, ecco che Ale trova quel pomeriggio l’ispirazione e, nell’orgasmo dell’idea appena formatasi in mente, prorompe euforico: “la spagnola!, la spagnola!”, intendendo la novella peripezia in cui avrebbe presto capitombolato il suo Renzo, ovvero la temibile peste bubbonica del XVII secolo appunto conosciuta come spagnola. Enrichetta Blondel, moglie stupida e protestante, fraintende tutto e crede che il suo Ale abbia invece finalmente coniato un nome al giornaliero gesto analgesico e, leccandosi le labbra inondate dal risultato del suo trasporto creativo, replica con rara cretineria: “e allora questa si chiamerà crema catalana!”.

Al che, visto che il qui pro quo governa ancora sovrano, il Manzoni la piglia a ceffoni e fa anche bene.

martedì 1 maggio 2007

Tris di primi.
















Io, incapace di sognare,
l’oblio della mente,
il Nulla.
Mi fingo in poesie.


Poesie, e poi più:
monologhi di morti.


Poeta è chi sente
poesie dentro chi non l’ha scritte.

martedì 24 aprile 2007

American Gnicche #3.
















La cosa toga de gira’lmondo è che ala fine t’acorgi che nsemo altro che un unico, grande paese. Voglio dì proprio quello: che Lusengeles se pol paragonare al Puggiulino, preciso, paro paro. Tranquillo, aposto toh! La luce elettrica c’ariva, le strade sono asfalte, lo smogghe t’ariva al naso prima de le curegge, i rabuschi son tutt’uno lì a fa’nna ghenga e rapina’lle vecchine. Ensomma, un cambia mica de molto. Che ta’ dì, un ce sarà la sagra del maccheron cu locio, ma pu semo lì eh, mica beghe. En pratica, a stacce a lungo, t’acorgi che pure la lingua segue gli stessi schemi, le stesse regole che paddave’ a che afa’ con quelli de Rezzo iobonino. La lingua, quella cosa viva e vegeta che muta, se trasforma in quello e cotesto, che s’arvolta a seconda de come uno la usa o ulla usa; quella cosa che te dà l’idintità e te fa sembra’ piu vivo, specie quando acatti na cicala e quella ulla finisce de smucinatte el palato col su turciglion de ciccia madonnabona. La lingua è proprio cotesta cosa lì, bravi!
Ensomma, girellando e argirellando, salten fora anche i loghi comuni, le frasi fatte, gli steroidi, l’intercalari, i modi de dire… Tutt’un casin de roba che te fa sentire a casina ogni volta de più. Anche perché scopri, lì più che mai, che tuttel mondo èn paese. Npaesone se vulite, ma sempre den paese se quistiona. Oggi, peffalla breve, ho scoperto che il nostrale “tocca ferro” se dice, daste parti, “noccunvud”. Ah, nfate i bischeri e atenzione eh, che questa è come se pronuncia la frase, che pare de sentì nceco del Chiaveretto dicchencvede. Ma tanto lo saprete già, in inglese la pronuncia dela frase è spesso anzicheno molto diversa da come la medesima se scrive. Nel fattispecio, la frase in quistione se scriverebbe cusì: “nocc un vud”, con la doppia spaziatura a dappiù enfasi ale tre singole parole, a fassì che uno che la scriva o che la legga ci pensi su almeno du volte dopogni singola parola, a fassì, ala fin del salmo, chel brodo salunghi npochino, che sinnò ale millottocento battute d’ordinanza col cacchio che c’arivi ogni volta.
En pratica, il nostro tocca ferro doventa un bussalegno, a tradurre letterale. Ma, come mensegnava el mi maestro poraccio ch’è morto dun malaccio l’altro par de sere fa, tradurre letterale è sempre nmale e, ala fin del salmo, parafrasando, el significato dela frase doventa: “scopa Pinocchio”. Paraccio el mitico Pino, l’americani ce lanno contro de lui perché ncittino cusì togo ullanno maavuto, come m’ha ditto na vicchina che stava schiantando a brutto muso sul’asfalto cocente che qua’l solarino picchia come ncoso. Io ho appreso la lezione e, gratole, me ne sono pu ito via al’ipercoppe locale qua, che c’avevo napuntamentino con du offertine trepeddue da sognalle la notte. Ah e se’, le pedinavo da npo evvia, ma ala fine ce l’ho fatta a famme na spanciata de quelle da raccontalle. Oh-oh bonini custì, magari la prossima mesata eh!

sabato 7 aprile 2007

Savoir-faire.

L'annusamento della fica, orifizio femminile noto a tutti per rilasciare quegli umori dell'acqua d'uopo a chi segue una diuresi contro i calculini o a chi soffre di varicoceli notturni, è una pratica tanto antica quanto bensana. La praticavano, da che risulta dai tomi della Storia, finanche i babilo-assironesi per mondare le cavità nasali dagli odoracci della guerra e, anche, dalla sinusite con sangue colante dovuta al freddo marzolino. Che là da loro lo scirocco tirava parecchio. Convinto sostenitore della teoria dei corsi e dei ricorsi storici poc'anzi fa accennata dal Vico, non vedo perchè mi dovrei abbassare al non usare tale odorosa pratica. Questo per dire che, di fatto, come ne ho avuto l'occasione, ho dato di quelle sniffate da far tutt'uno col vecchio amico lo sfregiato. E, beninteso, ne ho tratto gran giovamento. Sì, perchè la fica, se capace di impregnare debitamente ciò che pudicamente la ricopre a favore del decoro del demanio pubblico, ha due miracolose proprietà. L'una, appartenente alla tipologia di fica agra, è di rilasciare nel cosmo attorno a sè le sostanze necessarie alla fotosintesi delle piante, dunque a favorire la vita. Olfattando ben bene la guepiere che ha tornito appropriatamente una fica agra se ne trae immediato sollievo, attestabile secondo una formula che gli scienziati del mondo hanno ricondotto ad alcuni numeri e cifre, ovvero E=mc2. L'altra qualità, riconducidibile alla seconda tipologia di fica, la fica asperrima con retrogusto dolciFICAnte, è quella di rilasciare fosforo e, allo stesso tempo, di agevolare la crescita degli spinaci. Pensate un po' il miracolo di natura: il fosforo per la memoria, ovvero l'embrione della cultura, gli spinaci come coattivante di ferro, dunque di forza, saldezza, potenza. Braccio e mente, solidità e intelligenza, tutto questo grazie a un bocciolino di carne che, tanto prezioso com'è, madre natura ha pensato bene di nascondere dietro un triangolino di foresta pluviale estrapolato da quella egoista dell'Amazzonia che ne voleva troppa per sè di boscaglia e dietro il fiume Venere con foce a delta.
L'altro grave problema che affligge l'umanità, e per questo ci son tutte le guerracce che ci sono, è che, fra i pochi che ormai annusano giornalmente fica, non tutti sanno come annusarla appropriatamente per beneficiarne a puntino, e di conseguenza farne beneficiare tutto il genere umano. Bisogna saperci fare, ecco. La mia plurima esperienza ha fornito le basi per permettermi di parlarne. Innanzitutto, l'indumento pulsante fica deve essere odoroso soltanto di quel fragrante aroma e non altro. Non si devono cercare indumenti che odorino anche di cureggine, per farla breve. L'autenticità dell'afrore è il primo passo per il secondo Big Bang della Storia. La seconda e ultima regola fondamentale è che, nel mentre si annusa, si può liberamente prendere la propria ciste di carne in mezzo alla gambe, farla stagionare come col pecorino e continuare a massaggiarla con la mano in su e in giù, proprio come se si stesse adoperando una sega a vapore da falegname. Ma, attenzione, mano destra se la fica è agra, mano sinistra se la fica è nell'altro verso.

In ultimo, il segreto da tramandare a memoria: fica non è l'anagramma di pupù. Peccato, ma va sempre tenuto in considerazione quando si annusa.

venerdì 23 marzo 2007

Porto d'approdo.











In tanto nitore di questa videociviltà
mi ritrovo a cercare
un punto di tenebra

sia pure un buco di spaziale nero
sia pure una rorida fica

venerdì 2 marzo 2007

American Gnicche s'arfa vivo.

Lusengeles valla pena de visitalla un fussaltro pe’i cuccomeri. Già, i cuccomeri. Visti da fora son d’un grosso, visti da dentro son d’un rosso: paion le palle d’un ciclope, iio de quel dio. Ennè mica finita qui: qua, pel’americani ah ma comodini che son questi, i cuccomeri non c’hanno i semi. O questa quando l’avrannonventa? Dapprincipio, spraaa, te sbrago un cuccomero come fussencòso, e to, un c’artrovo i semi per davero. Diodequeldio, mando l’han missi me so penso, o ancora ho penso subbeto: unnavrò mica preso un puppone? Enoeh, che i pupponi a me mica me garbeno de molto. Però el colore unningannava mica: rosso comel dentro de quel ben de dio che c’han le citte costaggiù, rosso diocristo che manco el diavelo ha ma’visto un rosso cusì.
O sentiamolo alora, me dico. Maremma, proprio un cuccomero, e de che tinta! Rossantanto! Pu, dolce che speri solo d’avello corpo pe na mesata de fila, succoso come pòchi, de punto nbianco me pariva desse arivo nel Bengodi. Se stava da papi con quel cuccomero sula trippa. Ondo li faran crescere, ho iniziato a quistionare fra me e me, ala Nasa iobonino?!
Ensomma, tralle e baralle, potete pensare quel che ve pare ma sti americani son sempre no zinzinino più avanti de noaltri pora gente. Anche sui cuccomeri ce danno i punti e alora pu non c’è trippa peggatti proprio.
Ah, e un v’ho ditto la cosa più toga: al’ipermercato, qua, i cuccomeri o comunque la frutta e la verdura in genere mica è come da noaltri che va pesata soppesata ripesata prezzata arinsoprellata. Dupalle che non se finisce più. Qua la pigli cusì com’è e tranquillo la porti, a mano col carello come te pare, ala cassa. Aposto così. Lì loro lo san già qual èl prezzo, un fan tante storie tante beghe come qui da noaltri, lo paghi tranquillo e chi sè visto sè visto. Al’ipercoop, tanto per diddu bischerate fra nualtri, chissà quante volte mè tocco artonnare dal verdurame perché mero scordo de prezzal cuccomero. Cola fila, entanto, che me passava avanti, faceva casino, pareva el finimondo madonnabona. E qui no, o comenn’arsarà qui in America? Toga è, ma de molto anche.

Sennestessi a Rezzo guasi guasi me ce trasferisco.

giovedì 22 febbraio 2007

La nostalgia.

La nostalgia è uno stato d’animo ma si fa sentire, e quanto. Ti prende e, in apparenza, ti lascia; invece, brace che cova, dracula in attesa del buio, è là che vigila. Come un invitato che alla festa preferisce il canto in disparte, la sua presenza ti è nota e, solo un tempo inquietante, ti è adesso familiare. Più cerchi di ignorarla e più le posi gli occhi addosso, ricevendo sempre il suo sguardo. Non sai dire se ti sorride o se sta facendo strani pensieri su di te, ma intanto la cerchi e vuoi esserne cercato.
La linea d’intesa è tracciata, invisibile come un parallelo, indelebile come argento di lumaca, e ti trovi a scoppiare a piangere. I passanti possono dimostrarsi gentili, interessandosi a te, ma non possono aiutarti: né di sollievo né di dolore, il sordo brontolio, come un rutto d’intestino, si è già incamminato, il rametto col sacco appeso sulle spalle, e tu non sei più capace di afferrare il presente attorno a te. Vorresti anche, ma non ce la fai. Hai un ologramma davanti: vivido, tangibile, non riconducibile a chi sei ora e a dove sei. Cos’è quel buco, là, sulla strada dieci metri più avanti da te, se non la trincea che, qualche anno fa, usava ripararti dall’attacco dei disgraziati bioastromostri verdi da Plutone? Come profuma di 1985, quel marzo spolverato di farina e le scuole chiuse, l’aria? Come splende, di luce di polvere, la pieve? Cos’ho lasciato, un amore, un souvenir, l’innocenza?
Non hai bisogno di trovarti altrove, o in una strada polverosa del Texas; magari aiuterebbe, ma potresti essere a casa tua, comodo sul divano, chissà se assorto. Arezzo fuori dalle finestre. Potresti leggere, stirare, fare i compiti. Scrivere. Sei tu, ora, luogo; tempo. Significante, significato. Il serbatoio della memoria, svasato, è ora un drive-in che proietta il mondo. I riflessi, visto l’elevato tasso di lamiere, si sprecano. Il sacco lacrimale, il tuo, è l’oceano.

Sì, maestra: così, in sintesi, descrivo il capocollo.

giovedì 15 febbraio 2007

Supereroi.

Ogni città vorrebbe avere il suo supereroe. La nostra, una città senza nome, ce l'ha ma forse non lo sa ancora. Il suo supereroe, infatti, si è talmente abituato alla noiosa quotidianità da essersi camuffato nelle sue pieghe. Come un camaleonte, però, avverte quando è l'ora di agire ed è sempre pronto a mutare pelle, fisionomia, improntitudine. La città senza nome non sa neanche che questa, forse, è la sua ultima missione qui.

Lui merita altrove.

sabato 3 febbraio 2007

American Gnicche.

El tutto cumincia un par de mesate fa: onnero a casina mia, senza sapecche fare e un dico mica il vuleffare da grandi, eh!, chello sa nissuno quello, quando mariva na mail che me dice se vulivo vire a fare il prodascion assistent in America, che manco sapevo che vuliva dire. E tutto perché, tralle e baralle, un qualcosina so riuscito a fallo pur'io: ho preso sta laurea nel cinematografo, chennè chen pezzo de carta de quel postaccio del Pionta.
Ensomma… l’America ragazzi!, mica chiuschino. Quelli che me dà el mi babbo dan par danni, cioè da quando me so laureato apunto, se chiameno nvece gnucchini, lu dice chen faccio nasega dala mattina ala sera: “O prova a entrare a lipercoppe!", me fa tanto che franpo' divento citrullo. O se a me me piace l’Esselunga?
Sicché, pensa e arpensa, me dico: massì toh!, oh andiamo da st’America. Finora l’ho vista in un par de filmi, Isi Raider, Forest Gamp e tituli cusì, e ora che c’ho il benservito, un ce dovrei vire? Envece ce vado ma anche de molto ala svelta!
Citti, alla fine ce so sbarco a Ollivud, nel mizzo de Lusengeles. Che ditto così, longo longo com’è stu nome, me par desse a Ciciliano, ma robbadamatti. Io pensavo proprio de costruilla, edificalla na sala col pruiettore e nvece la prima cosa che lamericani me dicono è: “Iar sinema is samfing artistic”. O che vogliono sti bruti che manco sanno di'ddu frasincroce? Mica c’arpensavo che noaltri italiani se parla i meglio del mondo!
Poi ce sono npar de cose che me sconvolge: ma ndo so arivo? Me sembra de stappela Casentinese, è tutt’un incrocio, un simafero, nviavai de casino, un diocristo chence se capisce niente.
Sicché anche qui m’artròvo a ire de qua e de là come ncòso, e ala fine me mitto ncerca del solarino che qua picchia dun togo e fa crescere du prugne che te le raccomando. Diobonino, è tutto el doppio, so già divento più alto e più largo nel giro de treggiorni. Anoeh! Come quando da picini te porteno dal Bubini ente c'artrovi fra tutti chi giochi, omadunnina.
Aete capito citti che l’America è ganza? Alò, che fate ancora costà? Poi, madunnina, un v’ho mica ditto la cosa più toga: qua le citte son disinvolte, c’han certe curve adosso che manco pella Libbia… e le mostreno anche sennè più stagione de primizie e uno, per raccontarla, manco se sconvolge più de tanto.


Quelle scacie, toh, a falla pari, c’avran delle nettarine che manco dal pòro schifo ormai se troveno. O alora chissà che pulezzine c'avran giù de sotto...

domenica 21 gennaio 2007

Là, proprio l.a.

Oggi è domenica e sono un po' emozionato, il Signorino risorge ad abundantiam, il passo della vita rallenta, i fiori se ne infischiano di non dover lavorare e sbocciano, il panta rei scorre fino ad arrivare al suo culmine: il puntatone maxi di Hot Pants, che stasera bel bello mi guardo e registro. Lo attendo così tanto che non vedo mica l'ora. Sono le 16,21 intanto, ma solo per questo minuto. Ohi vita grama! L'emozione dell'oggi deriva anche dal fatto che domani devo fare una gita fuori porta per una commissione legata al contrabbando dei culatelli d'asino, e mi devo recare qui: Ciudad de la Iglesia de Nuestra Señora de Los Angeles sobra la Porziuncola de Asìs. Là i culatelli non li hanno e li importano storicamente da me; tuttavia, la cosa curiosa è che la meta potrebbe apparire lontana e invece, stando al fenomenale detto secondo cui tutto il mondo è paese, alla fine è come dire che Ciudad de la Iglesia de Nuestra Señora de Los Angeles sobra la Porziuncola de Asìs siamo noi, siamo noi. L'emozione è talmente forte che le parole, per una volta, si bloccano, acciocché vi debbo lasciare con l'unico inconveniente che potrebbe far saltare il tutto, spedizioni incluse. Sono mesi che mi preparo e stasera mi toccherà mangiare ancora: un attimo di distrazione e zac, la malora di Fenoglio riapparirà alle mie spalle e mi farà chop-chop. E' questione di secondi e di spasimi: in pratica, secondo i sempiterni trattati del Marsillac, basta una sbrodolatura ed è kaput. Resterebbe allora un'unica soluzione, gridare ad alta voce per trecentosettantaquattro volte consecutive, nell'arco di 0,87 secondi, la fatidica emissione: "mi sono sbrodolato, mi sono sbrodolato [cont.]".

Finora ce l'ha fatta solo il mio ex collega di origini furlane Formag Gino; ma lui, furbino, si allenava anche di notte, e la cosa - legalmente - non vale.

mercoledì 17 gennaio 2007

V per vegetariano.

La mia prima ragazza si chiamava Carmela Matrioska ed era, al di là di ogni credo e di ogni razza, tipicamente abissina. Era fatta in maniera particolare: per farvi capire, mi tocca ricorrere allo stratagemma del cuoco. Lo stratagemma del cuoco lo ha inventato il famoso gourmet Accen Dino, bravissimo nel dosaggio della fiamma dei fornelli, particolarità per cui, a seguire, venivano dei piattini che ve li raccomando. Il suo segreto è svelato, oggi che la mania di svelare tutto ha contagiato il cosiddetto mondo civilizzato, come postfazione di una raccolta di saggi dedicata alla manutenzione ottimale, in assenza di sale e spezie, dei cadaverini del Burundi. Lo stratagemma del cuoco è quella particolarità secondo cui ogni evento fenomenico della realtà viene ricondotto alla realtà specifica del cuoco, alla sua piccola e tenera epitome: la cucina. Per farvi capire meglio, lo adotto anche io: Carmela Matrioska, fatta in maniera particolare, era come una cipolla. Più strati levavi, e più veniva il bòno: quello che gli americani, tecnicamente, chiamano "hardcore" - "analcore" se l'oggetto di indagine è visto da dietro ovviamente. La cosa buffa è che lei, filantropa di natura, ci teneva a farsi vedere nelle condizioni migliori: quindi, dopo la prima limonata Guizza e il primo boing-boing alle sue melette là dabbasso, eravamo soliti ad andare in camera sua e io ero costretto a vedere il suo bonanimo. Il primo strato, notoriamente, era un kayak appiccicato a lei, da cui, con una tenerezza infinita, non si voleva separare mai. Le ricordava, simbolicamente, il padre, un vero uomo, morto nelle rapide del Gange di mattina presto. Per questo, e per sentirselo ancora più vicino, di tanto in tanto dava una leccatina al sangue raffermo sulla prua e poi, come un cagnetto affettuoso, ti leccata a sua volta. Voleva dividere ogni cosa lei, anche le sue toccanti memoires. Levarle il kayak di dosso, solitamente comportava la chiamata internazionale di Calzaturifico Coi Baiocchi, noto fabbro isolano. Lui veniva e, con la fiamma ossidrica, le levava il kayak di dosso. Tre volte su tre c'era il rischio che le ustionasse la faccia, al che - se succedeva - io le sputavo igienicamente sulla gota sinistra e le irroravo di bava il muso, rinfrescandola come Dio comanda. Il secondo strato era l'America: non la nazione in sé, figurarsi, bensì la proiezione cartografica di Gauss da cui, amante del globo, se ne separava malvolentieri. Tra il dire e il fare, insomma, si facevano spesso le otto e, siccome la mostra del suo bonanimo avveniva anche nei giorni lavorativi, a quel punto iniziava Arnold e io la piantavo lì in asso, magari turandole la bocca con della cenere di sigaretta avanzata perché avesse qualcosa da fare. Se invece era il weekend, tutto filava liscio fino al suo nocciolo duro: il cosiddetto bandolo della matassa. E, fra ampie vallate, collinette simil-senesi, tornanti da averci la nausea se non si guarda fissamente la linea della strada davanti a sé, una matassina di pelo nero in effetti c'era. Un triangolino che non era equilatero né isoscele, dei peggiori insomma. A me pareva di feltro e già mi beavo all'idea del rumorino dello strappo, ma mi sbagliavo: era puro velcro, non ancora infeltrito dai ripetuti lavaggi a 60°. Una delusione da non dirsi, in ogni caso. Fino a lì insomma, era come il Paradiso Caduto di Milton: lungo, noioso ma, diobono, alla fine t'aveva cambiato la vita. Da lì in poi, invece, ogni santa volta, il patatrac. Per carità, io potevo anche rimanere soddisfatto delle posizioni da lei preferite, che invariabilmente mi propinava come fosse semolino al febbricitante: il Missionario di Rivafratta, lo Smorzacandela nell'epoca della corrente elettrica, il 69 virgola sessantanove nove periodico, il Tegucigalpa, il Saluto al sole, l'Are Krishna e infine il suo cavallo di battaglia, da lei stesso inventato per di più: l'Aiotto-Aiotto-Crack. Poi, però, una questione morale, inesorabile, sopravanzava tutto e tutti: lei era vegetariana fitta e, come tale, rifiutava sistematicamente, irrispettosa dopo tutto quel che io avevo fatto per lei, il mio pensierino tenero e pensato proprio ad hoc nei suoi confronti: la Grande Farcia alla Crema Che Bontà. Niente, il fatto di essere vegeteriana giustificava, ai suoi occhi, il perentorio rifiuto nei confronti del mio siringotto da provette farciture, e io le dovevo anche dare retta secondo lei. Le ho provato a spiegare, ovviamente, che di plastica proprio non lo potevo trovare, il siringotto, e che se però lei pensava alla carne come fosse plastica, tutto sarebbe stato risolto, e io avrei avuto il mio tanto sospirato bombolottino alla crema chantilly, da buon esegeta quale sono.

Insomma, una volta passi pure questa miseria, ma poi basta, anche perchè la sua irragionevole compulsione vegana mi ha causato un forte complesso edipico per cui, adesso, le donne, invece che sedurle, le preferisco a julienne, e la cosa non sta più bene come una volta. Io sarò solo ma il suo destino, a quanto io sappia, è stato giustamente la S.S. 313 che da Follonica porta a Venturina, un bel pezzo di strada statale peraltro, la fortunata. Dovrebbe trovarsi ancora là, ma io non ci vado mica a trovarla: cippirimerlo.

sabato 13 gennaio 2007

Pesi massimi.

1)La realtà non è quella che appare, ma quella che si cela dietro le apparenze.

2)Chi non ha sogni d’onnipotenza: l'importante è realizzarli.
3)E’ facile ammettere i propri pregi, più difficile è ammettere quelli degli altri.
4)E' difficile ammettere i propri difetti, più facile è ammettere quelli degli altri.
5)La morte è una cosa bella, soprattutto se non sopraggiunge mai.
6)Tutti devono morire prima o poi. Meglio poi, che prima.
7)La vita è un film senza lieto fine.
8)La vita è un film senza pubblicità.
9)La vita è un film interrotto a metà.
10)La vita e la morte sono unite da un sottil filo. Se lo spezzo, vivo o muoio?
11)La verità è una bugia vestita di falso.
12)Poeta è chi sente poesie dentro chi non le ha scritte.
13)L’utopia è quella malattia per la quale uno si crede ricco e potente e poi si sveglia nel suo letto con le mani bucate.
14)Senza pretendere niente, non otterrai mai nulla; pretendendo troppo, non otterrai mai nulla uguale perché nessuno ti darà mai niente.
15)Gli uomini sono soltanto scimmie che si credono più evolute di altre.

E un motteggio, addirittura in francese:
- Je ne sais pas quoi faire.
- Mais pourquoi tu ne fais pas le coiffeur?

sabato 6 gennaio 2007

Chiuso per estate.

È il 25 dicembre 2006, vigilia di Santo Stefano, poco prima che ieri l'altro: come ogni anno, i festoni le luminarie le bancarelle la tappezzeria à la Santa Claus. Mutate le mutande: l'Arezzo di sempre, almeno per come la conosco io. Me ne passeggio senza meta, un po’ ritroso a darmi in pasto alla folla natalizia; un freddo ostinato mi fa sbuffare sotto la sciarpa, facendomi appannare gli occhiali. Per questo, forse, credo di avere visto male, magari mi sono creato un miraggio ad personam. Sono in via Niccolò Aretino, il Santa Claus di Ciggiano per inciso, davanti al reminder dei libri usati, dò le spalle alle stazione; e, tra i fumi corporei e il via-vai della gente, intravedo un poster marchiato a lettere rossofuoco, su sfondo bianco. Penso, gongolando non visto da nessuno, alle vecchie locandine dei “film per adulti”, stessi colori tendenti all’invisibilità, all’autocensura discreta, e per un attimo mi viene un pensiero malizioso. Giusto un biccico ma sufficiente per decidere di avvicinarmi, per capire meglio l’eventuale orario, oltre che il titolo: mi ero sbagliato però e, sotto la scritta gargantuesca, mi scappa un sorriso. A seguire, una sonora risata. Di sarcasmo se va bene, temo di disprezzo. La locandina, quella del Teatro Politeama, è inequivocabile a questa distanza. Annuncia stentorea: “Chiusura estiva”, e implicitamente suggerisce una plausibile giustificazione al fatto che da mesi la cultura, lì ma non solo, è rimasta all'età della pietra. Come se non si dovesse invece credere che là, della cultura, non frega niente a nessuno. La loro logica è legalmente esatta, un po’ perfida e balordamente provinciale (in magazzino non c'era un “Chiuso per ferie”?): è estate, il 25 dicembre, e la gente al cinema non ci andrebbe comunque, allora tanto vale chiudere. Azzardo un paragone: un condannato a morte, una volta letta la sentenza, viene fatto sadicamente aspettare e legge sopra la sedia elettrica illuminata: “Blackout”. Subito dopo la risata, mi viene un dubbio e temo di essere vittima di una cospirazione kafkiana, di un complotto polanskiano, di una dimensione parallela lynchiana. Forse, mi dico, penso di essere ad Arezzo e invece mi trovo a Dubai. Ma mi definisco cartesiano, sicché prendo la rincorsa e faccio una volata alla parallela trenta metri più avanti, quella dell’ingresso principale: voglio la prova del nove. Non pensavo di ottenerla così limpida, violenta: ai lati della doppia porta a vetri, campeggiano due vetrine, con doppia chiusura estiva annessa. Procedo ancora la verifica però, tommaseo di estrazione. Butto in un cestino la papalina e i guanti, mi privo del piumino, accorcio i pantaloni ostentando a malincuore il pacco, tiro fuori le espadrillas dal taschino. È allora che arriva la doccia, fredda: il clima non mente, è inverno - pungente, umido, entra dentro le ossa. C’è chi inizia a evitarmi, noto attorno ilarità o sospetto, intravedo una volante che non voglio ripetere: capisco che avevo ragione, mi rivesto; orgoglioso, mi siedo sul mio scranno prét-à-porter.

Sì, Caroselli, le stagioni sembrano esistere ancora, a donarci qualche misera certezza; di contro, la sciatta ignoranza e l’indifferenza nei confronti della sciatta ignoranza sono più vispe che mai.