domenica 21 gennaio 2007

Là, proprio l.a.

Oggi è domenica e sono un po' emozionato, il Signorino risorge ad abundantiam, il passo della vita rallenta, i fiori se ne infischiano di non dover lavorare e sbocciano, il panta rei scorre fino ad arrivare al suo culmine: il puntatone maxi di Hot Pants, che stasera bel bello mi guardo e registro. Lo attendo così tanto che non vedo mica l'ora. Sono le 16,21 intanto, ma solo per questo minuto. Ohi vita grama! L'emozione dell'oggi deriva anche dal fatto che domani devo fare una gita fuori porta per una commissione legata al contrabbando dei culatelli d'asino, e mi devo recare qui: Ciudad de la Iglesia de Nuestra Señora de Los Angeles sobra la Porziuncola de Asìs. Là i culatelli non li hanno e li importano storicamente da me; tuttavia, la cosa curiosa è che la meta potrebbe apparire lontana e invece, stando al fenomenale detto secondo cui tutto il mondo è paese, alla fine è come dire che Ciudad de la Iglesia de Nuestra Señora de Los Angeles sobra la Porziuncola de Asìs siamo noi, siamo noi. L'emozione è talmente forte che le parole, per una volta, si bloccano, acciocché vi debbo lasciare con l'unico inconveniente che potrebbe far saltare il tutto, spedizioni incluse. Sono mesi che mi preparo e stasera mi toccherà mangiare ancora: un attimo di distrazione e zac, la malora di Fenoglio riapparirà alle mie spalle e mi farà chop-chop. E' questione di secondi e di spasimi: in pratica, secondo i sempiterni trattati del Marsillac, basta una sbrodolatura ed è kaput. Resterebbe allora un'unica soluzione, gridare ad alta voce per trecentosettantaquattro volte consecutive, nell'arco di 0,87 secondi, la fatidica emissione: "mi sono sbrodolato, mi sono sbrodolato [cont.]".

Finora ce l'ha fatta solo il mio ex collega di origini furlane Formag Gino; ma lui, furbino, si allenava anche di notte, e la cosa - legalmente - non vale.

mercoledì 17 gennaio 2007

V per vegetariano.

La mia prima ragazza si chiamava Carmela Matrioska ed era, al di là di ogni credo e di ogni razza, tipicamente abissina. Era fatta in maniera particolare: per farvi capire, mi tocca ricorrere allo stratagemma del cuoco. Lo stratagemma del cuoco lo ha inventato il famoso gourmet Accen Dino, bravissimo nel dosaggio della fiamma dei fornelli, particolarità per cui, a seguire, venivano dei piattini che ve li raccomando. Il suo segreto è svelato, oggi che la mania di svelare tutto ha contagiato il cosiddetto mondo civilizzato, come postfazione di una raccolta di saggi dedicata alla manutenzione ottimale, in assenza di sale e spezie, dei cadaverini del Burundi. Lo stratagemma del cuoco è quella particolarità secondo cui ogni evento fenomenico della realtà viene ricondotto alla realtà specifica del cuoco, alla sua piccola e tenera epitome: la cucina. Per farvi capire meglio, lo adotto anche io: Carmela Matrioska, fatta in maniera particolare, era come una cipolla. Più strati levavi, e più veniva il bòno: quello che gli americani, tecnicamente, chiamano "hardcore" - "analcore" se l'oggetto di indagine è visto da dietro ovviamente. La cosa buffa è che lei, filantropa di natura, ci teneva a farsi vedere nelle condizioni migliori: quindi, dopo la prima limonata Guizza e il primo boing-boing alle sue melette là dabbasso, eravamo soliti ad andare in camera sua e io ero costretto a vedere il suo bonanimo. Il primo strato, notoriamente, era un kayak appiccicato a lei, da cui, con una tenerezza infinita, non si voleva separare mai. Le ricordava, simbolicamente, il padre, un vero uomo, morto nelle rapide del Gange di mattina presto. Per questo, e per sentirselo ancora più vicino, di tanto in tanto dava una leccatina al sangue raffermo sulla prua e poi, come un cagnetto affettuoso, ti leccata a sua volta. Voleva dividere ogni cosa lei, anche le sue toccanti memoires. Levarle il kayak di dosso, solitamente comportava la chiamata internazionale di Calzaturifico Coi Baiocchi, noto fabbro isolano. Lui veniva e, con la fiamma ossidrica, le levava il kayak di dosso. Tre volte su tre c'era il rischio che le ustionasse la faccia, al che - se succedeva - io le sputavo igienicamente sulla gota sinistra e le irroravo di bava il muso, rinfrescandola come Dio comanda. Il secondo strato era l'America: non la nazione in sé, figurarsi, bensì la proiezione cartografica di Gauss da cui, amante del globo, se ne separava malvolentieri. Tra il dire e il fare, insomma, si facevano spesso le otto e, siccome la mostra del suo bonanimo avveniva anche nei giorni lavorativi, a quel punto iniziava Arnold e io la piantavo lì in asso, magari turandole la bocca con della cenere di sigaretta avanzata perché avesse qualcosa da fare. Se invece era il weekend, tutto filava liscio fino al suo nocciolo duro: il cosiddetto bandolo della matassa. E, fra ampie vallate, collinette simil-senesi, tornanti da averci la nausea se non si guarda fissamente la linea della strada davanti a sé, una matassina di pelo nero in effetti c'era. Un triangolino che non era equilatero né isoscele, dei peggiori insomma. A me pareva di feltro e già mi beavo all'idea del rumorino dello strappo, ma mi sbagliavo: era puro velcro, non ancora infeltrito dai ripetuti lavaggi a 60°. Una delusione da non dirsi, in ogni caso. Fino a lì insomma, era come il Paradiso Caduto di Milton: lungo, noioso ma, diobono, alla fine t'aveva cambiato la vita. Da lì in poi, invece, ogni santa volta, il patatrac. Per carità, io potevo anche rimanere soddisfatto delle posizioni da lei preferite, che invariabilmente mi propinava come fosse semolino al febbricitante: il Missionario di Rivafratta, lo Smorzacandela nell'epoca della corrente elettrica, il 69 virgola sessantanove nove periodico, il Tegucigalpa, il Saluto al sole, l'Are Krishna e infine il suo cavallo di battaglia, da lei stesso inventato per di più: l'Aiotto-Aiotto-Crack. Poi, però, una questione morale, inesorabile, sopravanzava tutto e tutti: lei era vegetariana fitta e, come tale, rifiutava sistematicamente, irrispettosa dopo tutto quel che io avevo fatto per lei, il mio pensierino tenero e pensato proprio ad hoc nei suoi confronti: la Grande Farcia alla Crema Che Bontà. Niente, il fatto di essere vegeteriana giustificava, ai suoi occhi, il perentorio rifiuto nei confronti del mio siringotto da provette farciture, e io le dovevo anche dare retta secondo lei. Le ho provato a spiegare, ovviamente, che di plastica proprio non lo potevo trovare, il siringotto, e che se però lei pensava alla carne come fosse plastica, tutto sarebbe stato risolto, e io avrei avuto il mio tanto sospirato bombolottino alla crema chantilly, da buon esegeta quale sono.

Insomma, una volta passi pure questa miseria, ma poi basta, anche perchè la sua irragionevole compulsione vegana mi ha causato un forte complesso edipico per cui, adesso, le donne, invece che sedurle, le preferisco a julienne, e la cosa non sta più bene come una volta. Io sarò solo ma il suo destino, a quanto io sappia, è stato giustamente la S.S. 313 che da Follonica porta a Venturina, un bel pezzo di strada statale peraltro, la fortunata. Dovrebbe trovarsi ancora là, ma io non ci vado mica a trovarla: cippirimerlo.

sabato 13 gennaio 2007

Pesi massimi.

1)La realtà non è quella che appare, ma quella che si cela dietro le apparenze.

2)Chi non ha sogni d’onnipotenza: l'importante è realizzarli.
3)E’ facile ammettere i propri pregi, più difficile è ammettere quelli degli altri.
4)E' difficile ammettere i propri difetti, più facile è ammettere quelli degli altri.
5)La morte è una cosa bella, soprattutto se non sopraggiunge mai.
6)Tutti devono morire prima o poi. Meglio poi, che prima.
7)La vita è un film senza lieto fine.
8)La vita è un film senza pubblicità.
9)La vita è un film interrotto a metà.
10)La vita e la morte sono unite da un sottil filo. Se lo spezzo, vivo o muoio?
11)La verità è una bugia vestita di falso.
12)Poeta è chi sente poesie dentro chi non le ha scritte.
13)L’utopia è quella malattia per la quale uno si crede ricco e potente e poi si sveglia nel suo letto con le mani bucate.
14)Senza pretendere niente, non otterrai mai nulla; pretendendo troppo, non otterrai mai nulla uguale perché nessuno ti darà mai niente.
15)Gli uomini sono soltanto scimmie che si credono più evolute di altre.

E un motteggio, addirittura in francese:
- Je ne sais pas quoi faire.
- Mais pourquoi tu ne fais pas le coiffeur?

sabato 6 gennaio 2007

Chiuso per estate.

È il 25 dicembre 2006, vigilia di Santo Stefano, poco prima che ieri l'altro: come ogni anno, i festoni le luminarie le bancarelle la tappezzeria à la Santa Claus. Mutate le mutande: l'Arezzo di sempre, almeno per come la conosco io. Me ne passeggio senza meta, un po’ ritroso a darmi in pasto alla folla natalizia; un freddo ostinato mi fa sbuffare sotto la sciarpa, facendomi appannare gli occhiali. Per questo, forse, credo di avere visto male, magari mi sono creato un miraggio ad personam. Sono in via Niccolò Aretino, il Santa Claus di Ciggiano per inciso, davanti al reminder dei libri usati, dò le spalle alle stazione; e, tra i fumi corporei e il via-vai della gente, intravedo un poster marchiato a lettere rossofuoco, su sfondo bianco. Penso, gongolando non visto da nessuno, alle vecchie locandine dei “film per adulti”, stessi colori tendenti all’invisibilità, all’autocensura discreta, e per un attimo mi viene un pensiero malizioso. Giusto un biccico ma sufficiente per decidere di avvicinarmi, per capire meglio l’eventuale orario, oltre che il titolo: mi ero sbagliato però e, sotto la scritta gargantuesca, mi scappa un sorriso. A seguire, una sonora risata. Di sarcasmo se va bene, temo di disprezzo. La locandina, quella del Teatro Politeama, è inequivocabile a questa distanza. Annuncia stentorea: “Chiusura estiva”, e implicitamente suggerisce una plausibile giustificazione al fatto che da mesi la cultura, lì ma non solo, è rimasta all'età della pietra. Come se non si dovesse invece credere che là, della cultura, non frega niente a nessuno. La loro logica è legalmente esatta, un po’ perfida e balordamente provinciale (in magazzino non c'era un “Chiuso per ferie”?): è estate, il 25 dicembre, e la gente al cinema non ci andrebbe comunque, allora tanto vale chiudere. Azzardo un paragone: un condannato a morte, una volta letta la sentenza, viene fatto sadicamente aspettare e legge sopra la sedia elettrica illuminata: “Blackout”. Subito dopo la risata, mi viene un dubbio e temo di essere vittima di una cospirazione kafkiana, di un complotto polanskiano, di una dimensione parallela lynchiana. Forse, mi dico, penso di essere ad Arezzo e invece mi trovo a Dubai. Ma mi definisco cartesiano, sicché prendo la rincorsa e faccio una volata alla parallela trenta metri più avanti, quella dell’ingresso principale: voglio la prova del nove. Non pensavo di ottenerla così limpida, violenta: ai lati della doppia porta a vetri, campeggiano due vetrine, con doppia chiusura estiva annessa. Procedo ancora la verifica però, tommaseo di estrazione. Butto in un cestino la papalina e i guanti, mi privo del piumino, accorcio i pantaloni ostentando a malincuore il pacco, tiro fuori le espadrillas dal taschino. È allora che arriva la doccia, fredda: il clima non mente, è inverno - pungente, umido, entra dentro le ossa. C’è chi inizia a evitarmi, noto attorno ilarità o sospetto, intravedo una volante che non voglio ripetere: capisco che avevo ragione, mi rivesto; orgoglioso, mi siedo sul mio scranno prét-à-porter.

Sì, Caroselli, le stagioni sembrano esistere ancora, a donarci qualche misera certezza; di contro, la sciatta ignoranza e l’indifferenza nei confronti della sciatta ignoranza sono più vispe che mai.