sabato 30 dicembre 2006

Come evitare la fimosi.

E' il 7 ottobre 1985, non c'ho da ricordarmelo; ho cinque anni e la fimosi, anche a quell'età, fa uno spavento. Qualche anno prima c'era stata la sciagura del Titanic, paracci tutti, ora è il mio turno di soffrire. Ti pareva. Il questionare è semplice: io sono pigro, tetragono agli ammonimenti materni, e uno zinzinino tetraplegico. In pratica, all'atto pratico, dopo aver evacuato il panta rei io non mi lavo e torno al ludo che ho dovuto, a malincuore, interrompere per questi bisogni fisiologici che oh, capitano sempre inopportuni. Uno è lì che zulla e si diverte e tonfa, il pippi ti fa toc-toc laggiù dabbasso; un altro è là che costruisce le Lego e ficca forchette negli occhi del fratello maggiore e aritonfa, stavolta c'è del grosso, il puppu non ne vuol sapere di rimanere rintanato. Niente, manco si stesse giocando a nascondino, quello vòl fare tana a tutti i costi. Diobono! E così, un po' ribelle e un po' citrullo, io agli impedimenti esistenziali gli dò il meno ascolto possibile: finché posso reggo il malcapitato, a costo di diventare rosso-rosso e di sentire i gas e gli sfinteri chiedere pietà insieme all'ernia del discobolo là dinnanzi; poi alla fine, se proprio devo cedere, resto stoico e vado di fretta. Fedele alla regal massima: veni, vidi, vici.
Uno pensa d'essersela svignata e invece c'impara subito che la vita è amara, c'impara: sentendo del male e del tiraggio, chiamo il materno poltergeist e le chiedo che'l succede. La risposta è uno schiocco di lingua, uno schianto d'albero: secco, invita alla riflessione. Ho un'infenzione grillare, la carnulina che finora andava in su e in giù sul cappellino del cimbello laggiù ora è ferma, infissata, una farfalla sullo stecco del collezionista. Giù a provare di tirarla, e giù il patire: alle lacrime si mescola il sangue, in un groviglio di sensazioni che - già lo so - c'hanno il sentore dei cocci aguzzi di bottiglia. E il mammino, in questo caso, si dimostra provetta e amorosa: lo scalzare è penoso, alleviamolo con dell'olio di ricino mi dice, ma non ce l'abbiamo, e allora via di vaselina e di vecchio su e giù, su e giù, arinsoprella su e arinsoprella giù, fino al fatidico: "eppur si muove". Sarà, ma di poco, tanto che ora il lavoro va passato a qualcosa che umidifichi e ammorbidisca il tubero intergambale: eccolo, il linguino sempiterno molliccio del mammino che, come il tartufo del cane in salute, passa al vaglio il dramma e, piano piano, ne risolve i contusi. Anni dopo scoprii che fellone è la parola giusta per descrivere quell'operato materno, ma niente da eccepire in quella circostanza: fece d'un bene. Oddio, a dire il vero, fece anche talmente dolore che svenni ma io non me resi conto. Anni dopo, però, in circostanze tutto sommato simili, venni. Tu pensa se una "s" in più o in meno si può permettere di fare tanta confusione.

Fatto sta che il mi' lillino riprese il suo operato da stantuffo di carne, e io ritardai di ben 5 giorni e mezzo la mia prima ospedalizzazione; la quale sarà argomento di futura indagine.

mercoledì 20 dicembre 2006

L'amore ai tempi del Sahara.

Il Sahara: quella distesa infinita di otto milioni di chilometri quadrati, come a dire settecento volte sette la settima villa di Al Qaeda, di polverina che entra su per il naso, di secchielli e palette lasciati lì, di castelli moreschi manco fossimo a Posillipo. Mancano i bambini, e un po' viene da stupirsi, ma c'è dell'altro in compenso. Vento e rovine di civiltà, scheletri di storia, catastrofi nucleari come miraggio mica oblio, l'umanità ridotta a deficienti ingolfati come berberi, tutto il giorno ad arroventarsi se la loro etimologia è derivato di balbuzie o idiozia, tutti blu a confondersi con le fiat duna fuori serie dal marzo di quell'anno e/o il cielo terso e stellato. Il paradiso per chi non c'è mai stato né mai vorrà andarci, il ghibli che soffia se gli va e sennò c'è la bora di levante, il geco che sta seduto e ce ne dovrebbe anche fregare qualcosa. Animalacci o pelosi o stecchiti, che si divertono a nascondersi fra le pieghe di una carne troppo esposta alla brace, rosolata dall'odio di una natura aspide. Il perdersi fra quelle spirali di sabbia e di tuareg, ecco il Sahara, dall'antico nome del saccarosio pronuncia con gorgia toscana da dove provenne per la prima volta: come se tutto quel popò di spazio fosse zucchero distillato. E invece, zac, come può, dove può, quando può, e spesso può, giù fiele a vagonate, orsù deglutisci ora con la bile di dio. Ed eccolo là, il miraggio di una felicità e di un benessere che non possono esistere, dunque Sahara, ovverossia specchio della nostra società arida di aridità, piena di bon-ton da educande, leziosa. L'apparenza - o che desertino tutto liscio e spolverato o come fa a non intenerirti?, sono arrivato a sentire -, e gli avvoltoi adunchi di là da quella. E uno, capita l'antifona, finisce per non sperare manco più. Un medioevo geografico.

Poi, di brutto come solo il settimo cavalleggeri sapeva diolabbiaingloria fare con quei taccagni di pellirossa, arrivo io. Un lampo e, se ci si vede ancora, luce fu. In caso contrario, la fede: anche il nero assoluto può essere luminoso. Io sono amore. Porto il calore e la speranza in questi tempi miserevoli, ho il cosiddetto "la" - sempre piaciuti gli articoli determinativi. Aaaah, aspettatemi, ché ora vengo, puntuale anzicheno; o, nel caso, scusate il ritardo.

lunedì 18 dicembre 2006

Nonna!

Ciao nonna,
e così, dopo tante volte che hai fatto finta di cercarmi, al gioco del questurino contro il piccolo ladro, ti sei voluta nascondere tu, e per giunta ti sei nascosta pure bene. Sai che ti dico? Hai fatto la cosa giusta! Tocca un po’ a tutti il divertimento, che posso facilmente scommettere come tu – sorniona e discreta – ti stia già divertendo. Tanto ti troveremo, magari ci vorrà un po’ ma ti troveremo. Stanne certa! E' una certezza più che una minaccia.
Certo è un po’ strano saperti partire proprio quando anche io sono lontano. Poi ci penso un attimo e non posso fare a meno di ringraziarti: sapevi bene che scrivo meglio di come mi presento e sapevi ancora meglio che, fra tutte le cerimonie formali, gli addii sono quelli che meno fanno per me. Non si sa mai quel che dire e allora ci si abbandona alla tristezza e alla compassione, come fossero l’unica realtà possibile.
Eppure, se uno decide di partire, o semplicemente di traslocare, dovrebbe essere per andare verso un meglio. Certo, rimane quella sfuggevole tensione per l’imminente cambiamento, ma poi si comprende che è stata la soluzione migliore e ci si abitua presto. Sia chi compie l’azione sia chi, di riflesso, la subisce.
Io davvero non so se questo meglio esiste, e nel caso se si può chiamare aldisu o aldigiù. So un’altra cosa però: che i tuoi tempi erano naturalmente maturi, come quelli di un frutto che o viene colto sano dall’albero o finisce per imputridire a terra; e sono felice che tu sia stata colta quando ancora potevi dare qualcosa altrove piuttosto che inacidirti qua insieme a noi già così acidi. Sarebbe stato penoso per tutti, quello davvero sì.
Personalmente, mi piacerà ricordarti sulla cyclette manco tu dovessi partecipare al prossimo tour, gli occhiali di una volta buoni per il volto di Golia e non per la tua magrezza, le tue piccole ossessioni che tanto mi hanno dato fastidio. Sai com’è, la memoria addolcisce e ispessisce ogni cosa.
Oh, il tuo treno sta per partire, e ancora ti devi mettere le scarpe giuste, devi spegnere tutte le luci, serrare tutte le finestre… Adesso, forse, la luna che tanto ti piaceva osservare dalla finestra la vedrai più nitida.
Buon viaggio. Non dimenticare la papalina che ci potrebbe essere qualche spiffero balordo.

Infine, per non dimenticare: ti saluto con uno ciao perché la vespa costa troppo.

giovedì 30 novembre 2006

Le scuole medie.

7 marzo 1991. Otto anni dopo, stessa data, stessa ora, il Cinema Stanley Kubrick avrebbe chiuso i battenti, e tutti sarebbero stati un po' più infelici. Otto anni prima, invece, nel marzo 1991 appunto, succedevano già cose turche.
L'infanzia si era già compenetrata con la prima giovinezza: era, insomma, il tempo degli "A Silvia" e delle seghe, rigorosamente Master System II o Mega Drive. Nonché delle tragedie: lo squalo di Piombino, la guerra del Golfo, i golf à la Jackson Pollock della nonna che iniziavano a procurare onte indicibili.
L'adolescenza e gli ormoni punivano, inoltre, noi maschi: privati miseramente del contatto - intimo e primordiale - con quel sangue che da questione privata diventa gossip mondano, non ci restavano che due vie per soddisfare il nostro bisogno di scoperta dell'interiorità. Il sesso e i film dell'orrore (per tacere dei Wilkinson a sconto). Postulato che, per il primo, proprio tutto da solo non potevamo fare, per pigrizia ci dirigevamo verso i secondi. E lì, epifania!, la consapevolezza del nostro scollamento con la realtà, terre di nessuno in nervi e ossa, nè carni nè pesci di umana bohità: la voce rauca pre-Tom Waits e il corpo goffo di Paperoga, la mentalità vorrei-ma-non-posso di un diciottenne immaturo e la fisicità di un cerebroleso mica embrionale, la voglia di fumare e i polmoni che ti dicono "guarda, deficiente, che va inspirata", il cazzo in tiro e il non sapere come nè dove usarlo, il pelame qui e là no, il mestruo degli 'alieni' e il perchè noi non ce lo abbiamo, il "mamma, posso fare tardi sono grande ormai" e il "mamma, ma credi che Babbo Natale me lo porterà Sonic The Hedgehog II quest'anno?".
Agglomerati di qualcosa che eravamo stati e di qualcosa d'altro che forse saremmo un giorno stati, anche ai genitori veniva la voglia di non affrettare i tempi e rischiare, magari, parecchio grosso. Il risultato concreto, nel mio caso, fu: niente horror né splatter; figuriamoci gore: roba che manco potevo sudare. Al che mi venne in aiuto Mazzini e la Storia mai patita: come gli antichi massoni, iniziò a circolare il seme della ribellione e della confraternita laica, il germe della rivoluzione menscevica e del libero associazionismo. Detto fatto: il capo operaio che si trovava nella situazione di avere la dimora libera diventò, con la scusa delle ricerche da fare in gruppo, un creepshow di budella spappolate, un ricettacolo di profondi rossi, un opificio di incubi, la casa degli orrori; specie nei venerdì 13 o a ognissanti.

Fu così che la cosa andò, tranquilla e rilassata, senza nessuna ombra a oscurare le nostri menti avide e smaniose. Figuriamoci: adulti precoci, sapevamo già distinguere cosa è vero e cosa no. Poi, nel marzo ricordato, il fattaccio: Italia 1 trasmise, per di più in perfetto orario, Nightmare - Dal profondo della notte. Un horror come mai più, non potevo perdermelo. Così, ormai uomo, mi feci insegnare come si videoregistra, e programmai la buaccaesse (Butali Home System). Il mattino dopo, mentre gongolavo a scuola al pensiero della visione clandestina, i miei se ne accorsero e cancellarono il mio misfatto. Fu lì che, cattivi come solo due genitori che si amano tanto, scelsero per me, senza manco interpellarmi, la strada dell'orfanismo.

giovedì 23 novembre 2006

Mamma li turchi!

Nel settembre 1994, giorno più giorno meno, facevo il mio ingresso nel mondo adulto, quello che ah ma ora son finiti i giorni eh. Il tramite fu, in Piazza della Badia 2, un edificio alquanto diroccato, ex convento di borowczykiana lussuria il cui chiostro ne raccontava, checché se ne dicesse e se ne dica ancora, delle belle.
Chiazze, macule, alabastri scivolosi, orpelli di ingegneria ambigua come lassù, verso il cielo infinito, quella rete elettrizzata in cui incauti pennuti, svolazzando in cerca di appoggi per rilassare e poi tendere gli sfinteri, dondolavano ormai inermi ad armate, ora gocciolanti idromele e sangue come piovesse. Il lavoro rende liberi figuriamoci la scuola, una lingua che manteneva del latino il declinato ma del sassone ostentava la coriaceità ci diceva, facendoci sentire tutti uguali, e migliori, e più felici. Le gioie della comunicazione trasparente.
Zaino in spalla e mutande strategicamente già colore dell'autunno incipiente, vivevo quel momento di verità come il condannato vive penosamente la sua ultima camminata: comunque vada, sa già che la moglie, a casa, per la tensione scuocerà la pasta. La quiete prima della tempesta, insomma, per dirla in una parola che sia anche epitome.
Per tutta l'estate, tra una limonata Guizza e il tentativo - vano - di alzare il tiro procacciandoci bocche e colli di bottiglia ben più torniti, non facevamo che spaventarci a vicenda enumerando, in bell'ordine cronologico, le vittime di Magenta, di Iwo Jima, di Tien-an-Men, di Ragioneria. E ora, senza manco rendersi conto che la prossima ora solare era prospettiva più lontana della patente di guida, ci trovavamo già al varco, carne da macello pronta a diventare serie alfanumerica di militi ignoti dai cognomi toscani anzicheno.
Il muscolo cardiaco dava il passo al Casio da polso mentre varcavo la soglia e, già letterariamente proteso, pensavo alla città di Dite. Io, invece, il dito me lo dovevo cacciare là dove non batte il sole per non dare, esibendole invero, odore alle paure.
Se non che, gigantesco come solo uno scolaro ripetente può essere, ecco pararmisi dinanzi la speranza. Deus ex machina di baldanza giovanile, un pirata dallo sguardo di ardesia e dal crine di cartoncino Bristol vellutatamente adagiato sulle possenti grucce naturali solleva il suo cuneo di carne dalla bocca dell'amata, dandole e, come solo uno che non la manda a dire può permettersi di fare, porgendomi all'unisono respiro, a me nano goffo e male in arnese, orbo di tanto spiro e orecchie da elefantino. Poco più di uno scherzo della natura deprecabilissimo, appiccicato con lo sputo di una persona con il mal di gola, e ancora nella sua età più felice. Per di più, di lì a poco, primo della classe; e della vita.


Maledetti bambini del Biafra che, fortunati loro, a scuola non ci devono andare; e tutto per un comma, l'ottavo, della loro costituzione a oligarchia assoluta che i nostri avi, sapendo contare fino alla carta vincente del settemmezzo, ci hanno negato per l'eternità.

domenica 19 novembre 2006

Una maionese di idiosincrasie.

Sarà che sono nato all'ospedale, con il rumore bianco dei macchinari di sottofondo, un ron-roon-rooon e ari-trafila di ron vari, ma io non sopporto chi russa; e con sopporto siamo già nel campo dell'eufemismo osé. E' per questo, capisco a mente fredda, che odio la mia famiglia, tutta quanta.
Siccome tendo a documentarmi, è venuto fuori che i macchinari che fanno ron sono stati introdotti nel 1978; prima, e dal 1965, facevano arf-arf. Tutto torna: per sperimentare gli inconvenienti dell'assenza di gravità nello spazio e della rarefazione atmosferica della luna, gli scienziati cattivi hanno sacrificato Laika; mio fratello non ha praticamente mai portato fuori Yoda.
Prima ancora, ed esattamente dal 1944, facevano bzz-bzzz. Tutto torna: William Golding scrive nel 1954 il suo pamphlet (Il signore delle mosche) intriso di sfiducia e astio nei confronti degli insetti ditteri; mio babbo ha la fobia delle zanzare. Mia mamma, per giunta, preferisce la ghiacchiaia di una volta al freezer.
Io appartengo alla generazione ron e ora apro un inciso fuori luogo: a me fa schifo la musica italiana. Tutta quanta, tranne quello che canta Vorrei incontrarti tra cent'anni; un altro passo, lui.
Mi repelle tanto chi russa e, di conseguenza, mi fa così paura la possibilità che io stesso russi che la notte, prima di coricarmi, eseguo una pratica rudimentale ma di comprovata efficacia: inalo un bel fiatone, tanto da contare fino a trentatre, e poi smetto di respirare. Lo spegnimento dei polmoni ne evita anche il surriscaldamento, peraltro, e la mattina dopo, sicuro di non avere russato, mi sveglio sempre felice; sempre, tranne quando vedo mio babbo praticare, solo soletto, un double anal a mia mamma ancora insonnolita: lì, ma è più l'eccezione che la regola, mi salta la mosca al naso, ma poi il risultato è che mio babbo si stizza ancora di più e, di solito, va poi per il triple.

E sì, non c'è niente di meglio che svegliarsi con l'oro in bocca, al mattino: a quel punto, a pranzo, oserei addirittura un'insalata russa.

giovedì 16 novembre 2006

La scopa-gambe.

E' il 30 settembre 1997, ricordatelo con me: un tardo mattino di scuola saltata, già caduco nelle tonalità autunnali; l'aria ancora benevola, a una certa, si farà frizzantina. Sospensione degli elementi e, ripeto, scuola saltata. Un avvenimento epocale, da mandare a memoria; e infatti.
E' il 30 settembre 1997 e io, diciassettenne da un deca di dì e una vacanza senza genitori alle spalle, mi sento grande. Grande, mica adulto: tutto un altro affare.
Il sesso di là da venire (così pare se vi piace), così come il mento pizzicorino e le emorroidi. Il colestorolo apposto e la prostata nuovomondo vergine di conquistadores guantati, la ribellione dai compiti delle vacanze, i primi scioperi sindacali; la masturbazione oppio dei popoli.
I 100 mg di nicotina delle rosse - le Diana sono meglio, sì-col-cazzo - una tentazione di morte che fa vittime.
E' il 30 settembre 1997 e una inaspettata insubordinazione condominiale porta, in casa mia, una novità. Il vaso di Pandora e la promessa a Faust, il Messia e la Befana, Dante e Beatrice, Filo Sganga e Brigitta, il cazzo e la fica: l'uno completamento dell'altra, inaspettata sticker mancante di un Panini ormai dato per disperso.
Tutto questo in manco tre chili di batuffolaggine animale che - presto si scoprirà - si abboffa, caca, piscia ogni tre per due, abbaia q.b., costringe alla presenza costante di un capobranco se va bene.
Yoda, meticcia di colore champagne nata un mese e ventisei giorni prima, quante belle ne abbiamo combinate insieme da quel 30 dì conta settembre con april giugno e novembre e quante no.
Io ricordo: il bocca-a-bocca rianimatorio, il cagnaccio di Baskerville pedofilo, la partita a scacchi vinta in coppia contro la Morte, la vergogna di Hallo Spank quando gli hai confidato che ti stava antipatichino, il tuo 90-60-90 al garrese; e tu, che rimembri ancora?
E che dire, Yoda, vergine cuccia, delle reciproche ossessioni da superarsi insieme, come una coppia di coniugi affiatati: per la tua snellezza, mia, e, tua, quello sguardo del cazzo - "o'pezz'e pane, cumpa'" - quando vuoi cibo, affetto, stronzerie varie. Cioé sempre.
Yoda, nove chili più o meno, e la sua passione per le praline Pedigree Pal; e la sua prima scalata alla vetta del divano; e la sua iperattività sessuale. Femmina moderna, seduttrice e abbandonatrice tutto lei, donna in carriera che accavalla zampe senza mutandine e occhieggia come fumando Gitanes senza filtro. Yoda e il primo amore, quello eterno e stupido, da sottomettere: un "birillo" ed è strike, col ricatto del sesso debole prima e poi con l'afrore caldo, che dice invece il contrario, dello stesso. Yoda e il tran-tran quotidiano dello zifonellare: partisti, quandocomedoveperché, con un braccio ingolfato, finisti alle gambe, innamorata persa ora dell'una ora dell'altra. Sempre, e solo, le mie - touché.
Ci hai perso i chili, il bauìo, l'innocenza, su quelle zampette arroccate là dove la tua natura muliebre non ti avrebbe dovuto portare. Del resto, cosa pretendere?, è da quel dì che pisciavi in piedi, come un omone fatto e finito.

Yoda, lasciatelo dire, in nome della tua rorida patatina ancora infecondata se non dalle tue paturnie mentali e oggi, per di più, disseccata dal più vile degli interventi che non ti ho risparmiato: ti amo, anche - e soprattutto - se resti, alla fin del salmo, una bastarda mica da riderci.

lunedì 6 novembre 2006

Algebra premaman.

Nel 1985 non andavo ancora a scuola, ma ero già più sveglio di tutti gli altri coetanei di asilo e skinhead che usavo frequentare.
Lo capivo perchè, a differenza loro, sapevo già leggere e addirittura scrivere. Ma ciò non mi bastava: cosicché, per fare la prova decisiva del nove, scrivevo su un pezzo di carta, a chiare lettere finanche corsive: "io già so leggere e scrivere, e voi no".
Ah, pancina mia fatti capanna: che solluchero vederli stringere quegli occhietti vitrei nello sforzo di fare una cosa che ancora, naturalmente, non erano tenuti a fare; e che dire, poi, del godimento di sentirli declamare, qualora l'impegno veniva infine ripagato da una corretta ancorché stentata lettura, la loro congenita, conclamata inferiorità?
Il tutto, infine, finiva con un cippirimerlo e un arrivederci, e io l'avevo vinta come era legittima consuetudine che fosse. Più spesso venivo picchiato a sangue, ma questi sono detour che a noi non interessano. La costruzione passiva della frase non mi si era ancora presentata.
Ecco che la natura umanistica aveva fatto il suo corso, ma la vita, infingarda, ci mise del suo. Perché la vita ti rigira come un calzino, se vòle; e spesso vòle. A forza di gnocchini mi voleva insegnare pure la matematica, e di fatto ci riuscì: ho imparato a moltiplicare gli interventi chirurgici e a dividere la mia esistenza fra la magione e l'ospedale, ho imparato a sommare antibiotici postoperatori alla mia dieta e a sottrarre ludi al mio tempo libero. Peraltro in soli tre anni netti (e senza Casio al polso), che è pur sempre l'unico numero primo perfetto.

Il risultato fu che, arrivato in prima superiore, avevo cinque e mezzo in italiano. Ma, grazie anche agli skinhead che amavano classificarsi in sieropositivi e sieronegativi, sapevo un'algebrina che madonna ragazzi.

venerdì 3 novembre 2006

La questione dei peli.

Nel 1991 ero un bambino felice - specie verso il far del giorno.
Andavo alle scuole medie, prendevo i miei bei votini alla faccia di tutti gli altri cretini dei miei compagni, mi si faceva le copertine ogni pié sospinto; e ridevo, e come se ridevo.
Mi si canzonava ogni dì, nell'ordine per:
- bassezza
- talpiopia
- orecchie a sventola
- culo a mandolino.
Ero, insomma, nella fase ancora impubere tra l'istrione e l'istrice da ora-la-metto-sotto-splat; mi avviavo, ecco, verso quella adoraaabile fascia teen che, in presenza di qualche chilo in più che forse allora c'era pure, avrebbe fatto di me una tin. Una goduria di vita - scocca unica, non replicabile.
La pubertà coming-soon, le sbrodolature notturne, i puerili innamoramenti, i primi rossori; e, per quel che mi riguarda, la vexata quaestio dei peli. Peli neri, peli virili, peli maschi.
Sui polpacci, sul primo pérone, sulla coda della tibia, finanche giù, sul dorso dei tarsi; ciuffi, mucchi, macchie di leopardo di peli vivi, vegeti, scuri come l'ebano che forgiò le prime capanne dei nativi preistorici.
Nel 1991 ero ancora, nolente o volente come poi mi sarebbe capitato con sempre maggior normalità, in anticipo sui tempi. Un ante litteram di undici anni ancora da compiere. Adulto in mezzo agli infanti, a cui era dato il permesso di toccare i primi culetti, inebriarsi di afrori muliebri, titillare cuori & clitoridi. Vivevo la mia ipertrofia tricotica con fierezza wasp e falsa modestia.

Nel 1992, senza che io me ne rendessi conto, si sparse la mania di King Kong. Era dal 1933 di E.B. Schoedsack e Merian C. Cooper che il mondo se l'era dimenticato, e ora ricompariva per rimettermi in riga. Dopo l'umiliazione di dover assistere alla trasformazione licantropica di tutti i miei vicini e lontani scolastici, il destino gramo non mi concesse neppure la par condicio come scappatoia: i miei peli datavano ancora 1991 e avevano come scadenza addirittura un inquietante 2013-la fortezza. La scappatoia, allora, giunse da un quasi omonimo beffardo: il tubo di scappamento. Inalavo benzina a 1700 lire al litro, con sommo disprezzo del paterno pieno antelucano, e stavo di nuovo bene. Sennonché, il fattaccio: un peletto di fabbrica Dahiatsu, che lì non doveva stare, si introdusse nel mio orifizio orale spalancato, andando a infilarsi nell'entroterra gutturale.
Un coff, coff espulse quello e il veleno non ancora verde, e io vi ho potuto raccontare questa educativa tregenda.

martedì 31 ottobre 2006

A quattro anni.

Nel 1984 avevo quattro anni, specialmente dopo il 20 settembre - ore 2,40 antelucane.
Già, mi pare, ero togo come adesso.
Sguardo fiero da teppa di chi sa che, presto o tardi, l'Euronics avrà qualcosa da temere da te; postura impettita; aria spavalda; berrettino dispettoso. Il corpettino ratto e tosto.

Giusto un accenno della perfezione del cerchio ai miei piedi: accenno su cui, ça va sans dire, non cresce erba; il radioso sole del domani a riverberare l'intorno del suo inossidabile fulgore. C'è chi giura che quella è l'esatta tonalità del colore "crepuscolo degli dei", in quel caso ovviamente alle mie spalle. Io, il gotterdammerung, manco so che esiste.
Una grana da dagherrotipo nostalgico, con funzione di: memento mori. Voialtri, beninteso. Un lampione isolato: la solitudine altrui. Una banlieue ancora troppa spoglia: non mi merita.
E, accanto, un coglione che crede che il mondo cada ai piedi di chi indossa golfini lisergici a lische di pesce orizzontali. Puah!: maniche rimboccate e lampo fino al gozzo, questa è la cura.








Nel mirarmi al posto di guida, ricordo come fosse ora la comodità panciolla dei sedili di quella Centoventisei bianca, la mia prima automobile. Mio fratello vicino, a ondivagare di bambine e pubertà come poi mai, e - cosa vedo? - i due freak Arbus forzatamente in primo piano. Col senno di poi, munifico come solo i grandi uomini sanno essere, sorrido a denti stretti e li perdono.