mercoledì 17 dicembre 2008

I cuori in cielo




















Comparvero in cielo senza preavviso. Gonfi, vivi, pulsanti; naturalmente, rossi. Cuori di carne sospesi su, nell’aria tesa da neve, né troppo in alto né troppo in basso, sembravano burattini tenuti dai fili invisibili di un burattinaio invisibile. Chi rivolgeva giù, nella strada, il ventricolo destro, aperto come un fiore appena sbocciato; un fiore sanguinante. Uno stillicidio irregolare, discontinuo rosseggiava infatti l’aria, regalando una falsa illusione di tramonto. Polvere di sangue sospesa. Chi fra loro aveva invece l’atrio rivolto verso l’alto pareva un vulcano che erutti su sé stesso, tanto lo zampillio era sottile, definito. Come un cuore perfettamente umano e perfettamente funzionante, cosa che era, disperdeva sangue e recuperava lo stesso sangue. Perché e per chi, quello no, non era dato saperlo.
Comparvero in cielo senza preavviso, neanche troppo presto di una mattina uguale a tutte le altre, ed erano tanti da oscurarlo. L’aria intirizzita e le ampie schiarite preannunciate dal meteo potevano far pensare alla neve, e già quello sarebbe stato un evento straordinario non attaccando generalmente mai in centro città, non certo a cuori della dimensione di un pugno che, non fosse per l’inquietudine che imponevano, rischiavano di rendersi ridicoli. Almeno fossero stati cuori romantici di stilizzata tradizione. Invece no, a parte starsene fissi nel petto del cielo e darci assaggio dei loro umori, non facevano proprio niente. Proprio questo non ci faceva stare tranquilli.

Questo e il fatto che un cielo così sgombro - di nuvole, di uccelli, di vita - non si era mai visto.

domenica 30 novembre 2008

Bocche che fumano














Noto
come
con eloquenza
sfacciata eleganza
questa coppia
di fronte a me
passeggia e
fuma

sollevando e
abbassando
all’unisono
la sigaretta

formando e
riformando
un pensiero unico
una sola necessità

non curandosi del
silenzio
che si scambiano
impassibili
di boccata
in boccata
sempre uguali
tutte regolari

non curandosi di
chi li segue
che immagina
senza poterne fare a meno
bocche liquide di fumo
nell’eterna
attesa di un bacio

che rovinerebbe il
glamour del rossetto
appena screziato di grigio
di un residuo di tabacco
di lei
e il labbro appena arcuato
ancora insapore della
sua oralità
di lui.

domenica 19 ottobre 2008

Canali

Una volta tanto, ho una confessione di debolezza: a Geografia non sono mai stato un luminare. Intendiamoci: lì per lì, a studiarla per saperla per l'interrogazione dell'indomani, ero un asso e, anzi, quasi mi piaceva pure. Tipo che mi dicevi "Isernia" e ti sapevo rispondere senza fallo e in fila: provincia altresì detta targa, regione d'appartenenza, peculiarità eco-socio-cultu-poli varie ed eventuali, idrografia e orografia, settore primario, poi secondario, infine terziario, tasso demografico, cartografia delle placche tettoniche di Los Angeles (io però, furbo, nel frattempo fantasticavo su ben altre placche, per la precisione quelle tettoniche di Romolina Zoroastri, la mia compagna di banco capace di rendersi indecorosa a ogni ricreazione), numero di adulteri commessi in loco nel 1992. Poi, però, accadeva che due giorni dopo vedessi una macchina targata "IS" e rispondessi: "Forte, viene da Isonzo". Che stronzo! (non so se l'avete capito, ma faceva una rima irresistibile.) Quantunque mi applicassi, la Geografia non mi entrava in testa, subendo perdipiù l'onta di un cugino che, a memoria e senza sforzo, sapeva persino il nome della capitale di Canberra. Canberra... Canberra.. Canberra. Ops, eheh, Canberra è già una capitale. Canberra... Canberra.. Canberra. Per inciso, mi chiedo se è da Canberra che vengono i Cranberries. Non memorizzando la Geografia, in pratica non ho mai capito la questione dei canali. Tipo se Suez sia artificiale o se il Passo del Bordoi potesse essere classificato anche come canale, e via di questo - ehm - passo. E' per questo deficit che alla fine, alle medie, io avevo una convinzione di tutto rispetto sia pure un po' infantile: che l'indotto della fica fosse diametralmente collegato con l'esdotto dell'ano. Se non ci arrivate, sarebbe il buco del culo. Sarebbe a dire che ero convinto che una donna seduta a sedere, se nuda, facesse luce. Una galleria che iniziava con una selva oscura e, senza illuminazioni di sorta, finiva per stringersi come gli imbuti che servono per infiascare il vino. O, presa dalla parte opposta, un binocolo in cui guardare dentro ma non vedere ingrandito. Le donne, in pratica, per me non avevano intestini, organi interni, duodeni, milze, neanche una parvenza di sgommature di lei - sì, la cacca. Un traforo netto e perfettamente longilineo, come un foglio protocollo arrotolato per bene. Volendo, c'è caso che come cerbottana fosse infallibile. Era una convinzione, ma non una certezza: avevo visto mille donne nude, ma tutte su quei giornalini tipo Topolino solo un po' meno in vista nelle edicole e, si sa, sulla carta stampata il fotoritocco è prassi consolidata. Era una convinzione che nasceva peraltro da basi molto solide: il mio amico prepotente, una volta, aveva detto che Moana (cito testuale perché non mi voglio sporcare la bocca con un costrutto grammaticale così rozzo), "a forza di pigliallo nel culo, gliel'avevano sfondato", e io, intelligente, avevo dedotto che se un culo si sfonda come fosse un muro, da qualche parte si dovrà pur arrivare. E la luce fu!

Ad ogni modo, tanto per capire quanto grande è stato nella mia vita il tarlo della Geografia e di questi canali, se quel mistero l'ho presto disvelato, è un altro che tuttora non mi lascia dormire: com'è che la piscia e la sborra escono dallo stesso buco? Non sembrandomi tanto igienico, mi chiedo: non è che a me, alla nascita, m'hanno tappato un foro col calcestruzzo, così per dispetto, per grulleria?

domenica 5 ottobre 2008

Gli effetti della nicotina




















Qualche sigaretta
di troppo
ti hanno reso la voce
di ferina sensualità

come se una rauca tigre
ruggisse al tuo interno eco

per chissà quale processo
di osmosi
ne respiro erosive boccate
- lingue di bruciato più spettri dei miei sogni che nebbia - e
l’asma cerebrale si risveglia

credevo fosse più facile
di pendere dal male
non dall’innocente blasfemia alla quale ti volti
non dalle tue labbra alla nicotina

sapessi almeno
che differenza c’è
fra una rossa e una nazionale

per sapere
quanto sono vivo quanto sono morto

lunedì 4 agosto 2008

Odissea seminale, ovvero: Fontina Boy hardcore

Il giorno è oggi. Oggi è l'apocalisse; l'ecatombe. Con tanti saluti alla legge sulla privacy, oggi gli scienziati della medicina vogliono il mio sempiterno, semantico seme che, qui lo dico, assomiglia alla forfora sottaceto. Curvi sulle loro provette dal tappo rosso a vite, lo vogliono analizzare, studiare, sottolineare per bene, se riescono anche ripassare prima del giro di interrogazioni programmate. Per via di una tonsillectomia andata male, ci sta infatti che la mia borraccina non faccia crescere funghi e muffe, cosa perigliosissima per la conservazione della specie e dei presepi e indi per cui da evitare. Ho fatto il bravo e ho calcolato tutto: non rilascio da qualche giorno, mi sveglio tonico sul far del giorno, jogging in una Malibu Beach ancora deserta e spettrale, addominali q.b. e mano da chirurgo. Il bicchiere si colma che è un piacere, tanto che ne approfitterei per dissetarmi; la notte, tuttavia, m'ha lasciato idratato e ci rinuncio. Sono pronto per avviarmi al laboratorio, sicuro d'aver raccolto il vigore necessario per rinnalzare da solo questo maledetto Pil che ci affligge, quando vedo che il mio piccolo cane giallo - l'ingorda, slap slap, soddisfatta mi lecca tutto come a volerne ancora - ha mandato giù tutto quanto, forza maschia e suo contenitore che ora, incastratosi ad altezza scapole, le ha fatto venire la tipica conformazione a botte dei pincher. Così devo ricominciare ma stavolta, mi dico, direttamente in loco. Arrivo al laboratorio, in Via Einstein, che credo essere uno di quei centri igienizzati americani in cui pullulano mono-cellette, Kleenex, Hustler ed escort per la bisogna ma che invece scopro dotato di un solo bagno per gli spastici che, poveretti non è colpa loro, mi fa specie a priori; però non ho altra scelta. Entro in contatto col Dalai Lama, ché la sola forza fisica a Lazzaro non basta più, e spiritualmente inizio a smanacciarlo come un mattarino: davanti a me l'intera Pizzeria da Tònio sottoforma di calendario mi saluta con grandi affanni bidimensionali e mi offre l'allettante prospettiva di mesi futuri da vivere. Solo che il tugurio dà proprio sulla sala d'aspetto e sentir parlare di vene varicose e di Fondi Pensione Inpdap mentre io aspiro alla trascendenza mi fa perdere prima la fiducia di Dal (così lo apostrofo ogni tanto), che se ne va lasciandomi in braghe di tela, e appena appresso la concentrazione. Ho solo ancora mezz'ora di tempo per la consegna della reliquia, così cerco un eremo più isolato: il bagno del primo piano dell'ospedale sovrastante, inodore e insonorizzato. Là, nella pace dei sensi, tutto sembra funzionare: come se avessi il naso di Pinocchio in mezzo al cosciarume e avessi appena detto una bugia, qualcosa eppur si muove. Con decoro, mi sputo nella conca della mano destra e, animoso, ci dò con olio di gomito. Tutto bene, finché non arriva la donna delle pulizie, una tristissima immigrata, che vuole assolutamente pulire hic et nunc e il dover questionare con lei me lo fa ricadere come corpo morto cade. Non ho più scelta: la mia oasi dove appoggiare il nettare del mio seme gesù è sempre stata casa mia, laddove ritorno fra il mesto e il costernato. Aduso alla spontaneità, stavolta mi tocca ripiegare su ammeniccoli e parafernalia: spodesto mio babbo dal pc con la scusa "esci che mi devo fare una sega" e mi collego a YouPorn, che oggi - mutatis mutandis - nemmeno lui carica. Allora mi ficco in bagno e ripenso in flashback ai miei trascorsi edonistici: l'amplesso con Jennifer Beals nella cabina di pilotaggio del Boeing 747 per Caltagirone è ormai acqua fresca, la pedicure di Claudia Schiffer sulla riva di Viserbella Adriatica mi fa un baffo, il bagno di sciroppo e miele con Carmen Russo nella piscina gonfiabile del mio vicino di casa è un ricordo troppo lontano. Sto piangendo sale amaro, quando ex abrupto mi sovviene il ventre materno e fluido in cui sono stato in comodato per nove mesi e succede il patatrac: il grillo mi si ingrilla e faccio in tempo ad afferrare un bicchierino della Nutella, uno della serie delle Ranoplà, per poi riempirlo fin quasi all'orlo, senza residui di schiuma e con l'avvitamento da sommelier. Mi rifiondo al laboratorio, che nel frattempo si è trasferito in Via Pasteur, senza il mio solito passaggio di unguento Oil of Olaz: sono ancora dolorante di pulsazioni e tutto sgocciolante quando, attraversando in diagonale la fila, forse vittima di allucinazioni, sento parlare di rubinetti che perdono e di rincaro dei crackers alla sborra. Consegno il campione all'addetta di turno, una vecchietta con un cespo di insalata bionda sulla testa che si inorridisce al sapere il contenuto e preferisce restare sul vago apponendovi questa etichetta: 'crema chantilly tenuta troppo sul tegame'. Arriva anche il dottore che si umetta il dito di ambrosia e, passandoselo sulla lingua, commenta icastico: "non si preoccupi, ora gli diamo un bello sguardo". Penso che alla fine sia finita qui, tutto è bene quel che finisce bene, c'è di peggio (ma, anche, al peggio non c'è mai fine), quando mi volto per salutarli e li vedo, entrambi, ingozzarsi di tramezzini alla veneziana farciti di spremuta delle mie gonadi. Allora rifletto con rughe sulla fame nel mondo, ma il mio pensiero è distolto presto dalla visione di Dal che, come nei film muti, parla senza emettere suono. Alla bell'e meglio capisco cosa dice e, un po', concordo con lui:

Che giornata del cazzo!

giovedì 24 luglio 2008

Le due coree

C'ho la cotta per Seoul da quando ancora, tempi lontani, la si chiamava in una maniera impronunciabile: Seul. Aggiungeteci poi che, a otto anni, il leggere un'opera ambientata colà e seconda solo al Dizionario dei sinonimi e dei contrari - le "Paperolimpiadi" scritte e disegnate da Romano Scarpa - mi rivoluzionò la crescita del prepuzio, dovetti subire l'onta del Bar mitzvah [io che preferivo il bar(di)rino], la Torah, l'escamotage, je t'aime moi non plus, eccetera eccetera. Insomma, son cresciuto parecchio bene e ora sapete tutto del mio ardore per la Corea specie del Sud, dove crescono dei cavoletti di Bruxelles che al Sùperal mica ce li trovavi. Vent'anni dopo corono il mio sogno e sono a Seoul da una settimana quando capisco d'aver sbagliato destinazione: qua trovo monsoni che spaccano le pietre, mentre io - diocoreano! - cercavo la còrea di Huntington, l'unica malattia più fulminante degli orecchioni a sventola che mi perseguitano da un po' di tempo, l'unica tramite cui, rovinando in maniera rovinosa il duodeno, mi darebbe per il resto l'illusione di sentirmi bene. Decido d'accontentarmi, faccio a pezzi l'aeroporto di Incheon con uno starnuto che ho finto di non trattenere più e - dioocchiamandorla! - mi dirigo a occhi aperti verso il fato. Non faccio in tempo ad arrivare al mio ostello, un tugurio in cui trovo alcuni cacciatori dei qui prelibati e cosiddetti 'bachi rosponi da seta' che stasera oh vogliono proprio farsi quella zuppa lì, che mi si presenta sottoforma di cacciatrice dei qui prelibati e cosiddetti 'bachi rosponi da seta': una cittarellina sui sei anni e mezzo talmente bona che penso abbia la fica con tanto di mestruazioni in faccia visto che nel parlare mi rovescia addosso secchiate di piastrine che, a terra, si ricompongono come mercurio. Si rivolge proprio a me e, in hangul stretto con un che di abruzzese, mi dice che è "timida ma che dentro di sé cova dentro di sé una tigre dentro di sé", per poi ammorbarmi con la leggenda secondo cui in Corea le tigri rappresentano tigri che sono tigri ed è per questo, e per la loro carne al gusto di elefante dei monsoni del nord, che le abbattono senza pietà e che le divinità sono. Si ferma lì, su quel punto, lasciandomi maliziosamente presagire tutto il resto. Il mio cordless in Corea non arriva a funzionare così la sera lei telefona ai miei in Italia e insomma alla fine ci vediamo. Giusto il tempo di capire che la ragazza che mi ha chiamato era una che non conosco che aveva sbagliato numero e poi ci presentiamo - lei, tipico nome autoctono, si chiama Numer Sbagl-iai - e lei mi porta nella camera fluorescente di un love motel dove io so che ci giureremo amore eterno. Invece no, è una tipetta che ha studiato Ingegneria Balorda al porto di Busan e ama il pragamatsmo yankee: della mia sfera affettiva, vuole proprio il nocciolo nodoso, la concretezza salsicciosa, il qua cosiddetto 'rocchio ripieno' e, senza chiedere, se ne serve a suo piacimento, ora con le bacchette ferrose, ora con il cucchiaio sbeccato, ora con il bocchino arcuato, ora con il bocciolo all'insù, ora legandomi con fili non sdipanabili di ramen al vaporaccio di metropolitana, ora fermentandolo insieme al kimchi, ora approfittandone per rintonacare di biancoperla le pareti stinte. Egoista e soddisfatta, sta per abbandonare me e le sue melliflue promesse per cui tanto ho combattuto, quando si taglia con la motosega accesa che mi aveva già regalato per il mio prossimo compleanno; è in quel momento che, trasformando con trasporto zen la mia esterrefazione in astio atavico, le esalo sulla ferita atomi infinitesimali di orecchioni a sventola che, tempo di farmi un caffè amaro, la rendono polvere davanti a me.

Mi slego, mi alzo, pago quella stanza con fecciosi won e sibilo al pellegialla di fronte a me: "diomonsone, che delusione la Corea!".

martedì 15 luglio 2008

Induvai Indurain

Le mode non mi sono mai piaciute. E' per questo che, fregandomene sublimamente del ciclismo, fra il 1991 e il 1995 - io avevo fra le undici e le quindici lune, lui (cippirimerlo!) fra i ventisette e i trentuno anni di comune mortale che una volta passati non ritornano più - elessi a mio idolo Miguel Indurain Larraya, detto anche Indurain, ridetto anche "il Navarro triste" per via della curiosa coincidenza per cui il suo secondo cognome, Larraya, aveva la stessa allitterazione doppia in r della parola 'navarro'. Quando io eleggo, non ci sono santi in paradiso che tengano: eleggo. (Oggi, più grande e maturo, passatemi il calembour, scarico invece libri ed e-leggo.) Quando c'era Indurain il mondo mi sembrava migliore e anche io avevo cambiato le mie parche abitudini di vita: in pratica, allora m'era presa la fissa di svuotare il duodeno dopo aver pranzato invece che prima, cosicché potessi espellere il malaccio arrecato dai cibi subito invece che trattenerlo intramoenia a far che poi non si sa. Di solito, per scendere nel concreto, succedeva questo: pranzavo (che bello l'ovetto fresco che mia mamma mi buttava giù a imbutate - chiara e tuorlo, che ognuno a suo modo fa tutto bene - contro la mia volontà da estirpare anche a colpi di cilicio plus frullati energetici di carote pre-Ace), leggevo in terrazza a pancia in giù di modo che il frescolino dell'impiantito producesse i suoi effetti benefici, qualche avvisaglia gassosa, poi la liposuzione del bisogno-quello-grosso da parte di mio babbo, infine l'accendersi di una Rai qualsiasi - mai più di mezz'ora che fa male agli occhi - a mostrare le gesta di questo don chisciotte dell'andatura bipede ma sui pedali e, occasionalmente, contromano. Lì, lui sulla sua dueruote e io sulla mia cyclette, entrambi eravamo sudati e uniti contro uno, nessuno, centomila mulini a vento, in un'adolescenza estiva e italiana che era solo mia ma che toh, togo com'ero, un pezzettino gli avrei potuto pure cedere.

Oggi che corro su quell'età di Indurain mi chiedo com'è possibile avere l'età indefinita di un mito, e che fine abbia fatto Indurain, su quali strade stia andando, perché nessuno lo ricordi più, perché funziona così-che la quotidianità non viene da menzionarla?; ma soprattutto, spaurito, mi chiedo: induvai te, Fontina Boy?

martedì 10 giugno 2008

Lupo la peripatetica

















Tutto iniziò con gli studi
facoltà e voglie da architetto
lei gode, tu sudi;
usò prima il compasso per diletto,
il proprio beninteso,
poi fu la volta del lucido, arrotolato
e non già steso,
oddio, cos'è stato, cos'è stato?
Si insinuò il piacere
nell'abitudine da zitella
e questo portò al poco temere
via i libri, che bella son bella
ora è il turno di volere.
Gli occhi stramazzati,
quasi viola, quasi da gatto,
ti fissan come congelati
uno sguardo come un patto.
La fredda sera non sente
né fa sentire
all'anima che non si pente
di comprare l'amore a poche lire.
Il suo prezzo invariabile,
che soddisfi ante, retro, sotto, sopra,
diventa costume amabile
fra i derelitti, giammai che qualcuno la copra
se non in senso animale
lei che ogni amore dato si rannicchia fetale.
Finché l'inverno scostumato
la ammalò
di un malanno ormai poco usato
e ce la portò via in un soffio, alò.

Triste fu che la sua leggenda durò poche ore,
una figura lontana a passeggio per i viali,
giusto il tempo di una visita dal dottore;
in un lampo dimenticata, ai maiali.

mercoledì 21 maggio 2008

La quarta

(D.Leg. 123/90 bischero - Nuova materia introdotta nell'ordinamento: Le fulmicotonate.)


O oggi non ti incontro Mara, una ex compagna di scuola con du' affari che diosololosa. All'epoca bastava dirle "Mara + Dona = Maradona" e giù, ci stava come se non ci fosse domani. Le ripeto il succulento assioma, ma ora è ritrosa e schifata dalla vita, come tutti. "Puah, sei diventata una persona a-mara", e la lascio al suo mondaccio, di cui è inconsapevole. (Galantuomo, calo un velo pietoso sul fatto che s'è pure sgonfiata.)

Intensità ridanciana: 63,2%.

martedì 29 aprile 2008

Tolleranza zero

Vado in giro, vedo cose, m'infilo nelle case, incontro gente; e, puntualmente, rimango deluso. Se non deluso, basito, sorpreso (in negativo, sia chiaro), sconcertato, scontento. Puntualmente, a meno che non mi innamori, al che la delusione è solo questione di "data da destinarsi". In parole povere, magari è in ritardo ma, presto o tardi, arriverà. Esigo troppo (d)al mondo oltre che (o prima che) (d)a me stesso? Non l'ho ancora bene focalizzato, magari nella prossima vita - quando sarò una talpa allergica alla terra - ci lavorerò su. A occhio e croce, in ogni caso, direi di sì e direi di no. Per ora, critico, giudico, mi arrabbio, sto male, faccio di tutto per essere infelice. Faccio categorie mentali, le adatto non solo al mio mondo ma al mondo intero, e traggo risultati. Lo so, vivo come se stessi giocando a scacchi, ma sono fatto così; e poi sono in molti a vivere così, magari illudendosi che per loro non vale o magari nascondendo(se)lo bene. Solo che io ne ho coscienza. Potrei cambiare, lo so; ma è difficile, e poi è più comodo restare qui dove sono arrivato ora. Hai voglia se è più comodo. Infine, diciamola tutta: mica sono fatto tanto male; anzi, a pensarci su, direi proprio il contrario. Fate una cosa: resettate tutto quello che ho poc'anzi descritto o, meglio, rovesciatelo al positivo; che sono sempre quello lì, ma in versione bòna. Preciso, pulito, ordinato, puntuale, affidabile, organizzato. In pratica, una casalinga della vita in un mondo che va a rotoli. Sarebbe facile rotolare, ma tengo duro. Ovviamente sono solo; e non sarò nemmeno leggenda. Ma dico io: come fai a rimanere positivo o, alla meno peggio, inerte quando la gente, praticamente chiunque, inizia la giornata alzando le tapparelle a metà o, se va bene, a tre quarti? Mica le alzano del tutto, che chissà quale sforzo ulteriore in più richiederebbe e poi, figurati, va già bene così. Loro credono che il detto in medio stat virtus si riferisca a questo. Così rimane l'orrore grigio o, nelle case vecchie, verde delle tapparelle a tre quarti, l'orrore dell'Italia delle tapparelle in bella mostra sia da fuori che da dentro, né troppo su né troppo giù, un ovosodo di merda che non dice niente, non dice "sto dormendo" né dice "sono all'erta". (Che poi, per inciso, esagero: la questione è anche meramente, solamente estetica, plastica.) Così come, le stesse persone, praticamente tutti ovvero, a fine giornata, chiuderanno in bellezza con le tapparelle abbassate non del tutto, di modo da lasciare i puntini attraverso cui la notte, anche lei emette luce, filtra in casa. Questo dovrebbe avere senso, ragione di esistere, dovrebbe essere soggetto a comprensione? No, mi spiace, che di questo passo poi, di queste persone qui, dovrei tollerare anche, in ordine non esaustivo:
- porte di casa né chiuse né aperte, bensì (ohibò!) lasciate semiaperte;

- la porta del bagno lasciata semiaperta anche quando uno ci ha cacato dentro (con, beninteso, la finestra del bagno invece chiusa);
- il tubetto del dentifricio strizzato dalla metà o, peggio ancora, dalla cima;
- gli schizzi di piscio sull'orlo del water se sono maschi (argh);

- i peli del cazzo o della fica nel bidè o, che brividi!, nella griglina della doccia;
- le orme delle scarpe in casa se fuori ha piovuto (che mica possiamo, noi yuppies, perdere due minuti due a strofinare bene gli zerbini);
- i tappi delle bottiglie, uff, avvitati mica del tutto;
- i barattolini delle spezie semiaperti, capovolti e, ci mancherebbe!, seminanti spezie dove capita;
- l'oliera unta anche all'esterno, perché, capirai!, ce ne vuole a passare un ditino a raccogliere la goccia che cade sempre e per forza;
- i coltelli inseriti nel portaposate con (diocane!) la punta in alto;
- i coltelli a grillo ritto mischiati alle forchette mischiati ai cucchiai mischiati ai chucchiaini nel portaposate anche se ci sono gli appositi divisori (ma perché?);
- i piatti mischiati alle pentole mischiate ai bicchieri mischiati alle tazze nel portapiatti sopra al lavello anche se ci sono gli appositi divisori (MA PERCHE'?!);
- la busta di plastica dei cereali bellamente aperta (quella dentro la scatola di cartone, anch'essa immancabilmente con le alette aperte);
- il cartone di latte vuoto buttato, non si riesce neanche a dire, in verticale nel bidone, che dai, vuoi sul serio metterti a schiacciarlo per benino?;
- il vestiario buttato tristemente impilato in terra invece che comodamente appeso su una sedia quando è l'ora di coricarsi (non appena dopo aver buttato, non giù giù del tutto, le serrande, beninteso);
- il dormire, se maschi, rigorosamente nudi dalla cintola in su o toh, al massimo, con la canottiera del giorno insieme alle mutande, anch'esse del giorno (il pigiama mai, ovvio; ma vogliamo scherzare?).
Sono, loro, le stesse persone che ti daranno il benvenuto a casa loro con l'ipocrita "scusa il disordine, scusa il casino", ma ovviamente non faranno mai niente per non fartelo trovare la volta successiva, e che, sempre intorno a loro e al loro metro di paragone ruota il mondo, altrettanto immancabilmente, ti diranno un lusinghiero (però quanta-implicita-voglia-di-metterti-in-imbarazzo-per-quanto-sei-freak-control) "accidempolina, che ordine!" quando sono loro ospiti tuoi. Lo stesso troiaio di persone che se ti chiedono una sigaretta e tu rispondi "mi spiace, non fumo" si sentono in dovere di dirti "beato te", come se loro, poveretti, avessero subito una maledizione che li condanni a fumare per l'eternità. Due secondi dopo, chiaro anche questo, stanno già esaltando il merdoso catrame della sigaretta misto all'amaro del caffé. Due secondi dopo, ancora più ovvio, sono a cacare in ogni posto loro capiti a tiro, perché niente fa andare di corpo in maniera ufficiale come caffé atque sigaretta. Sia chiaro, poi: queste persone, praticamente tutto il genere umano maschile e, triste a dirsi, ormai femminile (nelle scuole non c'è più "Economia domestica" del resto), dormiranno sonni ben più felici dei miei, russeranno, avranno un compagno/a accanto, avranno un lavoro l'indomani mattina, faranno belle vacanze, avranno il sogno di tutti gli esseri umani che siano decentemente intelligenti e civili: un figlio/figlia. E io, e i pochi noi come me, giù a non avere nemmeno il cantuccio di un sogno a disposizione da succhiare, da mungere, da spremere. Giù a patire.

La vita sì, è proprio bella.

sabato 29 marzo 2008

Catechesi

Come tutti gli italiani su questa Terra, italiani all'estero ivi compresi, anche io sono stato un agnello del Signorino. Un periodo di pura felicità, dagli otto ai diciotto anni circa, ma così tanta che, a ricordarla, il cor mi si spaura. Tutto iniziò in modi oscuri che non posso certo ricordare ma sicuramente continuò quando io, curioso come non mai, scoprii che, con la scusa degli spirituali abbracci fraterni che concludevano ogni sessione di catechismo, si poteva avvolgere in maniera impudica le polpose forme femminili e, più spesso che no, toccare pure il - si astengano i pii - didietro. Purtroppo, tutto questo - passatemi il termine - ben-di-dio si dové interrompere sul far della maturità con la scoperta di una gravità insormontabile, oserei dire burocratica: il sempre temuto Gesù Cristo, si arrivò a scoprire, era un mentecatto reo di essersi addirittura cambiato il cognome - l'impronunciabile (è dittongo o iato?) ma poetico Dio - nel più popolare Cristo. Andò così: deciso di cambiarsi il cognome, quello che, viste le rimostranze sul cognome, da ora in poi nomineremo solo come Gesù, non sapeva quale altro scegliere. Allora si affidò al caso, che alla sua epoca ancora si chiamava fede. S'affacciò alla finestra e scelse di assumere, come cognome, la prima parola che avesse mai visto. Passò un camion di netturbini palestinesi che sul vano ribaltabile recitava "Cristo che puzza!", solo che il "che puzza!" s'era sbiadito nel tempo mentre "Cristo" no. La ragione è che quella parola era stata scritta con un pennarello Uniposca, indelebile sì ma quasi finito e difatti finì del tutto alla "o" di Cristo", e il resto fu invece compilato con olio di palissandro.
Ecco, in sintesi, la ragione del mio abbandono della spiritualità. Un po', pur tuttavia, mi dispiacque, soprattutto per aver perso tutti i grandi SE che tale frequentazione mistica includeva. Il fatto è che fra le assidue frequentatrici c'erano Simona Evangelisti e Sandra Evangelisti (autogooglatevi, autogooglatevi!). Parenti, dite? No, siete fuori strada. Le due sorelle amavano compensarsi, nel fisico e nello spirito. L'una sfoggiando un - qui mi date la scomunica - sedere che, a forza di stare seduto per suonare l'organo in chiesa, aveva assunto la tipica forma del mandolino. Si dice che Stradivari ne stia ancora studiando, invano, il gioco di rimandi sonori interni. L'altra sfoderando, sul davanti, un paio di campane che il Duomo non ce l'ha mica così poderose. Solo che noi, fin da piccolini, le preferivamo Simona, il cui - ahia, già vi sento! - culo pareva promettere oro, incenso e mirra. Ci avevamo fantasticato tanto su quella caverna buia e inesplorata che, alla fine, a otto anni eravamo già sicuri corrispondesse alla geografia del paese dei balocchi e, a diciotto, ne eravamo convinti finanche di più.

Invece no, se pulito (non è mai detta), andava solo inculato. Quando mi capitò, fece pure male e fu una delusione infernale.

venerdì 14 marzo 2008

Gori il videotecario

















Era sempre all’altezza della situazione
aggiornato ci mancherebbe
e spesso in anticipo sui tempi;
a volte pareva il futuro messo in piedi lì [oggi,
e sarebbe bello pensare
che nel futuro ci sarà mai tale e tanta [moralità.
Mentre collezionava l'utile e il disutile
univa sarcasmo e buffoneria
grand-guignol e ironia cinica;
di spavalda goliardia spolverava i suoi [cimeli.
Tra un fumetto e una buaccaesse,
nuova e registrata in sp
(l'lp, ah che naïf, non sapeva come [attivarlo),
mai orfani di numeri e cataloghi,
con lui la morte faceva le fusa al Cluedo,
l'autentica solitudine si accompagnava,
ah gli ossimori e la dialettica non eran per [lui,
alla disperata critica di quella
balorda della condizione umana.
MA.
Ma, ciò appena detto sopra, valga senza
il volgo conio del comune disprezzo.

L'afflato resta: certo che putivi murire
doppo avermi prestato tutte
le tue buaccaessine dolci e tenarine.

martedì 26 febbraio 2008

La terza

(D.Leg. 123/90 bischero - Nuova materia introdotta nell'ordinamento: Le fulmicotonate.)


O oggi non ti incontro una ninfomane. "Diocaro che nutria!", esclama lasciva dopo avermi lasciato manco in tela di braghe. Un assist raro: "Ed è pure nutriente", chioso con tenero aplomb; ma la povera malata è già riversa sul suo daffare.

Intensità ridanciana: 87,7%.

martedì 12 febbraio 2008

Krakatoa!

Gasati sgassavano gassando l'aria. Turbolenze pneumatiche. Rombi (non i pesci) cacofonici. Razzate micidiali. Rotori di qua, rotori di là. Un puzzo assordante. Un casino che non vi dico. I centotre assatanati parevano voler concorrere con gli Hell's Angels laggiù nelle strade californiane (qui, nondimeno, si era sulla Bettolle-Palazzo del Pero). Gli stessi angeli infernali, se li avessero visti, sarebbero corsi da mammeta col pollice a succhiotto. E' tutta una questione di sguardi, la cattiveria. Puoi essere tenarino come lo studente Garrone ma avere occhiate (le occhiaie verranno) da Andrei Chikatilo, e sarai cattivo. Loro, per di più, sembravano scaglie di drago rifiutate dalla cresta di Minosse e avevano lampi che manco Donato Bilancia, ed eppure era tutto uno yeah-yeah. Sì, ma uno yeah-yeah di sangue e di cervellini fritti impanati. Stavano lì, in sosta; sostavano e il mondo pareva in apnea con loro, tanta era la tensione connessa alla loro stasi. Che facevano? Cosa volevano? Stavano aspettando qualcosa? Nessuno parlava, tantomeno loro, fedeli adepti del silenzio che intimorisce solo a sentirlo: quindi nessuno sapeva. Stavano lì, in sosta nel parcheggio di fronte casa mia, a farsi beffe del mondo che non proseguiva se non attraverso i loro tuoni minacciosi. Li guardavo dalla finestra da un po' e infine mi decisi: a mio avviso, erano mammolette in confronto a me. Aggrappai il loden verde a bottoni marroni, troppo lungo per me; afferrai le scarpe, quelle buone; arraffai una papalina di lana calda, calandomela storta sul capo: non volevo fare il puzzo, ma ci tenevo a presentarmi niente male. Scesi le scale e, con assoluta indifferenza, li raggiunsi, cosa che li stupì alquanto. Videro che sono basso, ma lo capirono soltanto un po' dopo: allora, cominciarono a ridere. Io tremavo dentro ma, ancora di più, fremevo. O implodevo o esplodevo. Decisi di darmi retta: sarei esploso. Sapevo di stare per sgominarli, proprio in mezzo a loro - epicentro del loro vulcano. Contenevo pressione da parecchio, su alla finestra, e a pranzo avevo mangiato fagioli. Mi calai tutto d'un colpo tuta e brache e, soffiando come un gatto, inarcai la schiena ed eruttai ciò che, anni dopo, causò l'11 settembre.

A nord di Fresno, una tramontana improvvisa scompigliò gli Hell's intenti ad adescare maestrine imberbi in uscita dagli asili locali e non ce ne fu più per nessuno.

martedì 22 gennaio 2008

La seconda

(D.Leg. 123/90 bischero - Nuova materia introdotta nell'ordinamento: Le fulmicotonate.)


O oggi non ti incontro un femminista. "Viva la bellezza scoperta delle citte", mi fa tutto d'un botto, come se non si potesse che essere d'accordo con lui.
"No, mi spiace", asserisco grave, "io sono per il burka, ma non uno stile tovaglia. Basta poco: il burkina faso"; ed è statua di sale.

Intensità ridanciana: 91,2%.

domenica 6 gennaio 2008

Un, due, tre, stella! - #1

Le medie, che periudino!
In prima, a parte il fatto di essere crocefisso un giorno sì e l'altro stavo a casa, mi divertivo, smettevo solipsisticamente di leggere Topolino e intraprendevo la lettura con sangue & tette (oh, a volte s'intravedeva il pezzato nero laggiù!) di Dylan Dog, passavo dal chiamare per nome al farlo per cognome (Fede diventava il Barbini, Marco lo Staderini; Giovanni non meritava nemmeno tale evoluzione, avendoci tradito per la B, la sezione col francese e con la Severi), dai compagni del rione e delle elementari agli amici che venivano da lontano (Ceciliano, Quarata, Ponte Buriano...: oh, gli ci voleva l'autobus per arrivare!), ai bocciati ("mamma, ma e se i bocciati mi fanno vedere i sorci verdi?"), a quelli che non fumavano giusto perché ancora s'era alle medie. Voi ci scherzate ma fra i bocciati c'era anche il Lucani, uno che aveva già p-o-m-i-c-i-a-t-o e forse forse anche qualcosa di più! Venivo crocefisso perché ero alto massimo 1,36 metri e all'epoca - un'epoca che è durata pressappoco tre lustri - mi rodeva non poco. Altitudine modesta e conseguenti mani piccole, sempre avute, non mi permettevano di eccellere soltanto in ginnastica - non afferravo la palla di pallamano - e in musica - non tappavo tutti i buchi del flauto di merda. Si può essere alti massimo 1,36 metri quando attorno avevi cavernicoli della tua età già da 1,80 e passa. Manolo!, Manolo della B!, che cazzo di finaccia hai fatto? Che poi lui, paraccio, era una pasta: ti curvava le dita all'indietro ma mica te lo negava mai, un sorrisone felice. Spero che la droga ti abbia messo le ali, guarda. Però, solo per il leggere (indovinate chi era il primo nella graduatoria dei libri presi in prestito e riconsegnati?), sapevo cos'erano le mestruazioni, conoscevo tutti i nomi dei genitali maschili e femminili (mi mancava giusto clitoride, ma quello pure per molte donne è una chimera), ero piuttosto vispo; insomma, le prese in giro erano bonarie, come fra uomini d'onore, ma finivano lì; poi, magnanimo come Abele, io ho sempre fatto copiare senza piaggeria e allora, anzi, ero proprio rispettato. Roba che dopo qualche giorno ero già diventato il miglior amico di Marcellino, lo spacciatore napoletano delle case popolari, e avevo davanti a me tre anni di rendita. Roba che un'altra volta, nello spogliatoio dei maschi (l'inferno sulla Terra: assi, pancali di legno, orinatoi, oggetti contundenti eventuali e... docce, con l'aggiunta del prof. immancabilmente giù in palestra dunque assente), mi arrivò sulla schiena e a tutto fòco una scarpa da ginnastica non destinata a me, lasciandomi in apnea per un minuto o più e in lacrime, senza che questo - nemmeno le lacrime esibite! - si tramutasse in ludibrio. Pensate voi, per arrivare a un risultato così, al lavorìo che avrò dovuto fare per compensare l'onta delle mie deficienze fisiche? No dico, pensateci un po' su! Beh, ve la dò io la risposta: neanche tanto.


E poi c'erano tanti altri che, magari più fortunati geneticamente ma meno schioc-schioc, si meritavano tutto il disprezzo di un'intera classe, compreso il mio: il Livi puzzava, la Bidini c'aveva il capo a cisterna, il Barbini stava diventando Moco, il Mariottini nano strafotteva pure, il Baracchi era tonto, il Mulè ci sembrava finocchio, la Rossi finocchia. Sì, finocchia!