sabato 30 dicembre 2006

Come evitare la fimosi.

E' il 7 ottobre 1985, non c'ho da ricordarmelo; ho cinque anni e la fimosi, anche a quell'età, fa uno spavento. Qualche anno prima c'era stata la sciagura del Titanic, paracci tutti, ora è il mio turno di soffrire. Ti pareva. Il questionare è semplice: io sono pigro, tetragono agli ammonimenti materni, e uno zinzinino tetraplegico. In pratica, all'atto pratico, dopo aver evacuato il panta rei io non mi lavo e torno al ludo che ho dovuto, a malincuore, interrompere per questi bisogni fisiologici che oh, capitano sempre inopportuni. Uno è lì che zulla e si diverte e tonfa, il pippi ti fa toc-toc laggiù dabbasso; un altro è là che costruisce le Lego e ficca forchette negli occhi del fratello maggiore e aritonfa, stavolta c'è del grosso, il puppu non ne vuol sapere di rimanere rintanato. Niente, manco si stesse giocando a nascondino, quello vòl fare tana a tutti i costi. Diobono! E così, un po' ribelle e un po' citrullo, io agli impedimenti esistenziali gli dò il meno ascolto possibile: finché posso reggo il malcapitato, a costo di diventare rosso-rosso e di sentire i gas e gli sfinteri chiedere pietà insieme all'ernia del discobolo là dinnanzi; poi alla fine, se proprio devo cedere, resto stoico e vado di fretta. Fedele alla regal massima: veni, vidi, vici.
Uno pensa d'essersela svignata e invece c'impara subito che la vita è amara, c'impara: sentendo del male e del tiraggio, chiamo il materno poltergeist e le chiedo che'l succede. La risposta è uno schiocco di lingua, uno schianto d'albero: secco, invita alla riflessione. Ho un'infenzione grillare, la carnulina che finora andava in su e in giù sul cappellino del cimbello laggiù ora è ferma, infissata, una farfalla sullo stecco del collezionista. Giù a provare di tirarla, e giù il patire: alle lacrime si mescola il sangue, in un groviglio di sensazioni che - già lo so - c'hanno il sentore dei cocci aguzzi di bottiglia. E il mammino, in questo caso, si dimostra provetta e amorosa: lo scalzare è penoso, alleviamolo con dell'olio di ricino mi dice, ma non ce l'abbiamo, e allora via di vaselina e di vecchio su e giù, su e giù, arinsoprella su e arinsoprella giù, fino al fatidico: "eppur si muove". Sarà, ma di poco, tanto che ora il lavoro va passato a qualcosa che umidifichi e ammorbidisca il tubero intergambale: eccolo, il linguino sempiterno molliccio del mammino che, come il tartufo del cane in salute, passa al vaglio il dramma e, piano piano, ne risolve i contusi. Anni dopo scoprii che fellone è la parola giusta per descrivere quell'operato materno, ma niente da eccepire in quella circostanza: fece d'un bene. Oddio, a dire il vero, fece anche talmente dolore che svenni ma io non me resi conto. Anni dopo, però, in circostanze tutto sommato simili, venni. Tu pensa se una "s" in più o in meno si può permettere di fare tanta confusione.

Fatto sta che il mi' lillino riprese il suo operato da stantuffo di carne, e io ritardai di ben 5 giorni e mezzo la mia prima ospedalizzazione; la quale sarà argomento di futura indagine.

mercoledì 20 dicembre 2006

L'amore ai tempi del Sahara.

Il Sahara: quella distesa infinita di otto milioni di chilometri quadrati, come a dire settecento volte sette la settima villa di Al Qaeda, di polverina che entra su per il naso, di secchielli e palette lasciati lì, di castelli moreschi manco fossimo a Posillipo. Mancano i bambini, e un po' viene da stupirsi, ma c'è dell'altro in compenso. Vento e rovine di civiltà, scheletri di storia, catastrofi nucleari come miraggio mica oblio, l'umanità ridotta a deficienti ingolfati come berberi, tutto il giorno ad arroventarsi se la loro etimologia è derivato di balbuzie o idiozia, tutti blu a confondersi con le fiat duna fuori serie dal marzo di quell'anno e/o il cielo terso e stellato. Il paradiso per chi non c'è mai stato né mai vorrà andarci, il ghibli che soffia se gli va e sennò c'è la bora di levante, il geco che sta seduto e ce ne dovrebbe anche fregare qualcosa. Animalacci o pelosi o stecchiti, che si divertono a nascondersi fra le pieghe di una carne troppo esposta alla brace, rosolata dall'odio di una natura aspide. Il perdersi fra quelle spirali di sabbia e di tuareg, ecco il Sahara, dall'antico nome del saccarosio pronuncia con gorgia toscana da dove provenne per la prima volta: come se tutto quel popò di spazio fosse zucchero distillato. E invece, zac, come può, dove può, quando può, e spesso può, giù fiele a vagonate, orsù deglutisci ora con la bile di dio. Ed eccolo là, il miraggio di una felicità e di un benessere che non possono esistere, dunque Sahara, ovverossia specchio della nostra società arida di aridità, piena di bon-ton da educande, leziosa. L'apparenza - o che desertino tutto liscio e spolverato o come fa a non intenerirti?, sono arrivato a sentire -, e gli avvoltoi adunchi di là da quella. E uno, capita l'antifona, finisce per non sperare manco più. Un medioevo geografico.

Poi, di brutto come solo il settimo cavalleggeri sapeva diolabbiaingloria fare con quei taccagni di pellirossa, arrivo io. Un lampo e, se ci si vede ancora, luce fu. In caso contrario, la fede: anche il nero assoluto può essere luminoso. Io sono amore. Porto il calore e la speranza in questi tempi miserevoli, ho il cosiddetto "la" - sempre piaciuti gli articoli determinativi. Aaaah, aspettatemi, ché ora vengo, puntuale anzicheno; o, nel caso, scusate il ritardo.

lunedì 18 dicembre 2006

Nonna!

Ciao nonna,
e così, dopo tante volte che hai fatto finta di cercarmi, al gioco del questurino contro il piccolo ladro, ti sei voluta nascondere tu, e per giunta ti sei nascosta pure bene. Sai che ti dico? Hai fatto la cosa giusta! Tocca un po’ a tutti il divertimento, che posso facilmente scommettere come tu – sorniona e discreta – ti stia già divertendo. Tanto ti troveremo, magari ci vorrà un po’ ma ti troveremo. Stanne certa! E' una certezza più che una minaccia.
Certo è un po’ strano saperti partire proprio quando anche io sono lontano. Poi ci penso un attimo e non posso fare a meno di ringraziarti: sapevi bene che scrivo meglio di come mi presento e sapevi ancora meglio che, fra tutte le cerimonie formali, gli addii sono quelli che meno fanno per me. Non si sa mai quel che dire e allora ci si abbandona alla tristezza e alla compassione, come fossero l’unica realtà possibile.
Eppure, se uno decide di partire, o semplicemente di traslocare, dovrebbe essere per andare verso un meglio. Certo, rimane quella sfuggevole tensione per l’imminente cambiamento, ma poi si comprende che è stata la soluzione migliore e ci si abitua presto. Sia chi compie l’azione sia chi, di riflesso, la subisce.
Io davvero non so se questo meglio esiste, e nel caso se si può chiamare aldisu o aldigiù. So un’altra cosa però: che i tuoi tempi erano naturalmente maturi, come quelli di un frutto che o viene colto sano dall’albero o finisce per imputridire a terra; e sono felice che tu sia stata colta quando ancora potevi dare qualcosa altrove piuttosto che inacidirti qua insieme a noi già così acidi. Sarebbe stato penoso per tutti, quello davvero sì.
Personalmente, mi piacerà ricordarti sulla cyclette manco tu dovessi partecipare al prossimo tour, gli occhiali di una volta buoni per il volto di Golia e non per la tua magrezza, le tue piccole ossessioni che tanto mi hanno dato fastidio. Sai com’è, la memoria addolcisce e ispessisce ogni cosa.
Oh, il tuo treno sta per partire, e ancora ti devi mettere le scarpe giuste, devi spegnere tutte le luci, serrare tutte le finestre… Adesso, forse, la luna che tanto ti piaceva osservare dalla finestra la vedrai più nitida.
Buon viaggio. Non dimenticare la papalina che ci potrebbe essere qualche spiffero balordo.

Infine, per non dimenticare: ti saluto con uno ciao perché la vespa costa troppo.