C'ho la cotta per Seoul da quando ancora, tempi lontani, la si chiamava in una maniera impronunciabile: Seul. Aggiungeteci poi che, a otto anni, il leggere un'opera ambientata colà e seconda solo al Dizionario dei sinonimi e dei contrari - le "Paperolimpiadi" scritte e disegnate da Romano Scarpa - mi rivoluzionò la crescita del prepuzio, dovetti subire l'onta del Bar mitzvah [io che preferivo il bar(di)rino], la Torah, l'escamotage, je t'aime moi non plus, eccetera eccetera. Insomma, son cresciuto parecchio bene e ora sapete tutto del mio ardore per la Corea specie del Sud, dove crescono dei cavoletti di Bruxelles che al Sùperal mica ce li trovavi. Vent'anni dopo corono il mio sogno e sono a Seoul da una settimana quando capisco d'aver sbagliato destinazione: qua trovo monsoni che spaccano le pietre, mentre io - diocoreano! - cercavo la còrea di Huntington, l'unica malattia più fulminante degli orecchioni a sventola che mi perseguitano da un po' di tempo, l'unica tramite cui, rovinando in maniera rovinosa il duodeno, mi darebbe per il resto l'illusione di sentirmi bene. Decido d'accontentarmi, faccio a pezzi l'aeroporto di Incheon con uno starnuto che ho finto di non trattenere più e - dioocchiamandorla! - mi dirigo a occhi aperti verso il fato. Non faccio in tempo ad arrivare al mio ostello, un tugurio in cui trovo alcuni cacciatori dei qui prelibati e cosiddetti 'bachi rosponi da seta' che stasera oh vogliono proprio farsi quella zuppa lì, che mi si presenta sottoforma di cacciatrice dei qui prelibati e cosiddetti 'bachi rosponi da seta': una cittarellina sui sei anni e mezzo talmente bona che penso abbia la fica con tanto di mestruazioni in faccia visto che nel parlare mi rovescia addosso secchiate di piastrine che, a terra, si ricompongono come mercurio. Si rivolge proprio a me e, in hangul stretto con un che di abruzzese, mi dice che è "timida ma che dentro di sé cova dentro di sé una tigre dentro di sé", per poi ammorbarmi con la leggenda secondo cui in Corea le tigri rappresentano tigri che sono tigri ed è per questo, e per la loro carne al gusto di elefante dei monsoni del nord, che le abbattono senza pietà e che le divinità sono. Si ferma lì, su quel punto, lasciandomi maliziosamente presagire tutto il resto. Il mio cordless in Corea non arriva a funzionare così la sera lei telefona ai miei in Italia e insomma alla fine ci vediamo. Giusto il tempo di capire che la ragazza che mi ha chiamato era una che non conosco che aveva sbagliato numero e poi ci presentiamo - lei, tipico nome autoctono, si chiama Numer Sbagl-iai - e lei mi porta nella camera fluorescente di un love motel dove io so che ci giureremo amore eterno. Invece no, è una tipetta che ha studiato Ingegneria Balorda al porto di Busan e ama il pragamatsmo yankee: della mia sfera affettiva, vuole proprio il nocciolo nodoso, la concretezza salsicciosa, il qua cosiddetto 'rocchio ripieno' e, senza chiedere, se ne serve a suo piacimento, ora con le bacchette ferrose, ora con il cucchiaio sbeccato, ora con il bocchino arcuato, ora con il bocciolo all'insù, ora legandomi con fili non sdipanabili di ramen al vaporaccio di metropolitana, ora fermentandolo insieme al kimchi, ora approfittandone per rintonacare di biancoperla le pareti stinte. Egoista e soddisfatta, sta per abbandonare me e le sue melliflue promesse per cui tanto ho combattuto, quando si taglia con la motosega accesa che mi aveva già regalato per il mio prossimo compleanno; è in quel momento che, trasformando con trasporto zen la mia esterrefazione in astio atavico, le esalo sulla ferita atomi infinitesimali di orecchioni a sventola che, tempo di farmi un caffè amaro, la rendono polvere davanti a me.
Mi slego, mi alzo, pago quella stanza con fecciosi won e sibilo al pellegialla di fronte a me: "diomonsone, che delusione la Corea!".