giovedì 30 novembre 2006

Le scuole medie.

7 marzo 1991. Otto anni dopo, stessa data, stessa ora, il Cinema Stanley Kubrick avrebbe chiuso i battenti, e tutti sarebbero stati un po' più infelici. Otto anni prima, invece, nel marzo 1991 appunto, succedevano già cose turche.
L'infanzia si era già compenetrata con la prima giovinezza: era, insomma, il tempo degli "A Silvia" e delle seghe, rigorosamente Master System II o Mega Drive. Nonché delle tragedie: lo squalo di Piombino, la guerra del Golfo, i golf à la Jackson Pollock della nonna che iniziavano a procurare onte indicibili.
L'adolescenza e gli ormoni punivano, inoltre, noi maschi: privati miseramente del contatto - intimo e primordiale - con quel sangue che da questione privata diventa gossip mondano, non ci restavano che due vie per soddisfare il nostro bisogno di scoperta dell'interiorità. Il sesso e i film dell'orrore (per tacere dei Wilkinson a sconto). Postulato che, per il primo, proprio tutto da solo non potevamo fare, per pigrizia ci dirigevamo verso i secondi. E lì, epifania!, la consapevolezza del nostro scollamento con la realtà, terre di nessuno in nervi e ossa, nè carni nè pesci di umana bohità: la voce rauca pre-Tom Waits e il corpo goffo di Paperoga, la mentalità vorrei-ma-non-posso di un diciottenne immaturo e la fisicità di un cerebroleso mica embrionale, la voglia di fumare e i polmoni che ti dicono "guarda, deficiente, che va inspirata", il cazzo in tiro e il non sapere come nè dove usarlo, il pelame qui e là no, il mestruo degli 'alieni' e il perchè noi non ce lo abbiamo, il "mamma, posso fare tardi sono grande ormai" e il "mamma, ma credi che Babbo Natale me lo porterà Sonic The Hedgehog II quest'anno?".
Agglomerati di qualcosa che eravamo stati e di qualcosa d'altro che forse saremmo un giorno stati, anche ai genitori veniva la voglia di non affrettare i tempi e rischiare, magari, parecchio grosso. Il risultato concreto, nel mio caso, fu: niente horror né splatter; figuriamoci gore: roba che manco potevo sudare. Al che mi venne in aiuto Mazzini e la Storia mai patita: come gli antichi massoni, iniziò a circolare il seme della ribellione e della confraternita laica, il germe della rivoluzione menscevica e del libero associazionismo. Detto fatto: il capo operaio che si trovava nella situazione di avere la dimora libera diventò, con la scusa delle ricerche da fare in gruppo, un creepshow di budella spappolate, un ricettacolo di profondi rossi, un opificio di incubi, la casa degli orrori; specie nei venerdì 13 o a ognissanti.

Fu così che la cosa andò, tranquilla e rilassata, senza nessuna ombra a oscurare le nostri menti avide e smaniose. Figuriamoci: adulti precoci, sapevamo già distinguere cosa è vero e cosa no. Poi, nel marzo ricordato, il fattaccio: Italia 1 trasmise, per di più in perfetto orario, Nightmare - Dal profondo della notte. Un horror come mai più, non potevo perdermelo. Così, ormai uomo, mi feci insegnare come si videoregistra, e programmai la buaccaesse (Butali Home System). Il mattino dopo, mentre gongolavo a scuola al pensiero della visione clandestina, i miei se ne accorsero e cancellarono il mio misfatto. Fu lì che, cattivi come solo due genitori che si amano tanto, scelsero per me, senza manco interpellarmi, la strada dell'orfanismo.

giovedì 23 novembre 2006

Mamma li turchi!

Nel settembre 1994, giorno più giorno meno, facevo il mio ingresso nel mondo adulto, quello che ah ma ora son finiti i giorni eh. Il tramite fu, in Piazza della Badia 2, un edificio alquanto diroccato, ex convento di borowczykiana lussuria il cui chiostro ne raccontava, checché se ne dicesse e se ne dica ancora, delle belle.
Chiazze, macule, alabastri scivolosi, orpelli di ingegneria ambigua come lassù, verso il cielo infinito, quella rete elettrizzata in cui incauti pennuti, svolazzando in cerca di appoggi per rilassare e poi tendere gli sfinteri, dondolavano ormai inermi ad armate, ora gocciolanti idromele e sangue come piovesse. Il lavoro rende liberi figuriamoci la scuola, una lingua che manteneva del latino il declinato ma del sassone ostentava la coriaceità ci diceva, facendoci sentire tutti uguali, e migliori, e più felici. Le gioie della comunicazione trasparente.
Zaino in spalla e mutande strategicamente già colore dell'autunno incipiente, vivevo quel momento di verità come il condannato vive penosamente la sua ultima camminata: comunque vada, sa già che la moglie, a casa, per la tensione scuocerà la pasta. La quiete prima della tempesta, insomma, per dirla in una parola che sia anche epitome.
Per tutta l'estate, tra una limonata Guizza e il tentativo - vano - di alzare il tiro procacciandoci bocche e colli di bottiglia ben più torniti, non facevamo che spaventarci a vicenda enumerando, in bell'ordine cronologico, le vittime di Magenta, di Iwo Jima, di Tien-an-Men, di Ragioneria. E ora, senza manco rendersi conto che la prossima ora solare era prospettiva più lontana della patente di guida, ci trovavamo già al varco, carne da macello pronta a diventare serie alfanumerica di militi ignoti dai cognomi toscani anzicheno.
Il muscolo cardiaco dava il passo al Casio da polso mentre varcavo la soglia e, già letterariamente proteso, pensavo alla città di Dite. Io, invece, il dito me lo dovevo cacciare là dove non batte il sole per non dare, esibendole invero, odore alle paure.
Se non che, gigantesco come solo uno scolaro ripetente può essere, ecco pararmisi dinanzi la speranza. Deus ex machina di baldanza giovanile, un pirata dallo sguardo di ardesia e dal crine di cartoncino Bristol vellutatamente adagiato sulle possenti grucce naturali solleva il suo cuneo di carne dalla bocca dell'amata, dandole e, come solo uno che non la manda a dire può permettersi di fare, porgendomi all'unisono respiro, a me nano goffo e male in arnese, orbo di tanto spiro e orecchie da elefantino. Poco più di uno scherzo della natura deprecabilissimo, appiccicato con lo sputo di una persona con il mal di gola, e ancora nella sua età più felice. Per di più, di lì a poco, primo della classe; e della vita.


Maledetti bambini del Biafra che, fortunati loro, a scuola non ci devono andare; e tutto per un comma, l'ottavo, della loro costituzione a oligarchia assoluta che i nostri avi, sapendo contare fino alla carta vincente del settemmezzo, ci hanno negato per l'eternità.

domenica 19 novembre 2006

Una maionese di idiosincrasie.

Sarà che sono nato all'ospedale, con il rumore bianco dei macchinari di sottofondo, un ron-roon-rooon e ari-trafila di ron vari, ma io non sopporto chi russa; e con sopporto siamo già nel campo dell'eufemismo osé. E' per questo, capisco a mente fredda, che odio la mia famiglia, tutta quanta.
Siccome tendo a documentarmi, è venuto fuori che i macchinari che fanno ron sono stati introdotti nel 1978; prima, e dal 1965, facevano arf-arf. Tutto torna: per sperimentare gli inconvenienti dell'assenza di gravità nello spazio e della rarefazione atmosferica della luna, gli scienziati cattivi hanno sacrificato Laika; mio fratello non ha praticamente mai portato fuori Yoda.
Prima ancora, ed esattamente dal 1944, facevano bzz-bzzz. Tutto torna: William Golding scrive nel 1954 il suo pamphlet (Il signore delle mosche) intriso di sfiducia e astio nei confronti degli insetti ditteri; mio babbo ha la fobia delle zanzare. Mia mamma, per giunta, preferisce la ghiacchiaia di una volta al freezer.
Io appartengo alla generazione ron e ora apro un inciso fuori luogo: a me fa schifo la musica italiana. Tutta quanta, tranne quello che canta Vorrei incontrarti tra cent'anni; un altro passo, lui.
Mi repelle tanto chi russa e, di conseguenza, mi fa così paura la possibilità che io stesso russi che la notte, prima di coricarmi, eseguo una pratica rudimentale ma di comprovata efficacia: inalo un bel fiatone, tanto da contare fino a trentatre, e poi smetto di respirare. Lo spegnimento dei polmoni ne evita anche il surriscaldamento, peraltro, e la mattina dopo, sicuro di non avere russato, mi sveglio sempre felice; sempre, tranne quando vedo mio babbo praticare, solo soletto, un double anal a mia mamma ancora insonnolita: lì, ma è più l'eccezione che la regola, mi salta la mosca al naso, ma poi il risultato è che mio babbo si stizza ancora di più e, di solito, va poi per il triple.

E sì, non c'è niente di meglio che svegliarsi con l'oro in bocca, al mattino: a quel punto, a pranzo, oserei addirittura un'insalata russa.

giovedì 16 novembre 2006

La scopa-gambe.

E' il 30 settembre 1997, ricordatelo con me: un tardo mattino di scuola saltata, già caduco nelle tonalità autunnali; l'aria ancora benevola, a una certa, si farà frizzantina. Sospensione degli elementi e, ripeto, scuola saltata. Un avvenimento epocale, da mandare a memoria; e infatti.
E' il 30 settembre 1997 e io, diciassettenne da un deca di dì e una vacanza senza genitori alle spalle, mi sento grande. Grande, mica adulto: tutto un altro affare.
Il sesso di là da venire (così pare se vi piace), così come il mento pizzicorino e le emorroidi. Il colestorolo apposto e la prostata nuovomondo vergine di conquistadores guantati, la ribellione dai compiti delle vacanze, i primi scioperi sindacali; la masturbazione oppio dei popoli.
I 100 mg di nicotina delle rosse - le Diana sono meglio, sì-col-cazzo - una tentazione di morte che fa vittime.
E' il 30 settembre 1997 e una inaspettata insubordinazione condominiale porta, in casa mia, una novità. Il vaso di Pandora e la promessa a Faust, il Messia e la Befana, Dante e Beatrice, Filo Sganga e Brigitta, il cazzo e la fica: l'uno completamento dell'altra, inaspettata sticker mancante di un Panini ormai dato per disperso.
Tutto questo in manco tre chili di batuffolaggine animale che - presto si scoprirà - si abboffa, caca, piscia ogni tre per due, abbaia q.b., costringe alla presenza costante di un capobranco se va bene.
Yoda, meticcia di colore champagne nata un mese e ventisei giorni prima, quante belle ne abbiamo combinate insieme da quel 30 dì conta settembre con april giugno e novembre e quante no.
Io ricordo: il bocca-a-bocca rianimatorio, il cagnaccio di Baskerville pedofilo, la partita a scacchi vinta in coppia contro la Morte, la vergogna di Hallo Spank quando gli hai confidato che ti stava antipatichino, il tuo 90-60-90 al garrese; e tu, che rimembri ancora?
E che dire, Yoda, vergine cuccia, delle reciproche ossessioni da superarsi insieme, come una coppia di coniugi affiatati: per la tua snellezza, mia, e, tua, quello sguardo del cazzo - "o'pezz'e pane, cumpa'" - quando vuoi cibo, affetto, stronzerie varie. Cioé sempre.
Yoda, nove chili più o meno, e la sua passione per le praline Pedigree Pal; e la sua prima scalata alla vetta del divano; e la sua iperattività sessuale. Femmina moderna, seduttrice e abbandonatrice tutto lei, donna in carriera che accavalla zampe senza mutandine e occhieggia come fumando Gitanes senza filtro. Yoda e il primo amore, quello eterno e stupido, da sottomettere: un "birillo" ed è strike, col ricatto del sesso debole prima e poi con l'afrore caldo, che dice invece il contrario, dello stesso. Yoda e il tran-tran quotidiano dello zifonellare: partisti, quandocomedoveperché, con un braccio ingolfato, finisti alle gambe, innamorata persa ora dell'una ora dell'altra. Sempre, e solo, le mie - touché.
Ci hai perso i chili, il bauìo, l'innocenza, su quelle zampette arroccate là dove la tua natura muliebre non ti avrebbe dovuto portare. Del resto, cosa pretendere?, è da quel dì che pisciavi in piedi, come un omone fatto e finito.

Yoda, lasciatelo dire, in nome della tua rorida patatina ancora infecondata se non dalle tue paturnie mentali e oggi, per di più, disseccata dal più vile degli interventi che non ti ho risparmiato: ti amo, anche - e soprattutto - se resti, alla fin del salmo, una bastarda mica da riderci.

lunedì 6 novembre 2006

Algebra premaman.

Nel 1985 non andavo ancora a scuola, ma ero già più sveglio di tutti gli altri coetanei di asilo e skinhead che usavo frequentare.
Lo capivo perchè, a differenza loro, sapevo già leggere e addirittura scrivere. Ma ciò non mi bastava: cosicché, per fare la prova decisiva del nove, scrivevo su un pezzo di carta, a chiare lettere finanche corsive: "io già so leggere e scrivere, e voi no".
Ah, pancina mia fatti capanna: che solluchero vederli stringere quegli occhietti vitrei nello sforzo di fare una cosa che ancora, naturalmente, non erano tenuti a fare; e che dire, poi, del godimento di sentirli declamare, qualora l'impegno veniva infine ripagato da una corretta ancorché stentata lettura, la loro congenita, conclamata inferiorità?
Il tutto, infine, finiva con un cippirimerlo e un arrivederci, e io l'avevo vinta come era legittima consuetudine che fosse. Più spesso venivo picchiato a sangue, ma questi sono detour che a noi non interessano. La costruzione passiva della frase non mi si era ancora presentata.
Ecco che la natura umanistica aveva fatto il suo corso, ma la vita, infingarda, ci mise del suo. Perché la vita ti rigira come un calzino, se vòle; e spesso vòle. A forza di gnocchini mi voleva insegnare pure la matematica, e di fatto ci riuscì: ho imparato a moltiplicare gli interventi chirurgici e a dividere la mia esistenza fra la magione e l'ospedale, ho imparato a sommare antibiotici postoperatori alla mia dieta e a sottrarre ludi al mio tempo libero. Peraltro in soli tre anni netti (e senza Casio al polso), che è pur sempre l'unico numero primo perfetto.

Il risultato fu che, arrivato in prima superiore, avevo cinque e mezzo in italiano. Ma, grazie anche agli skinhead che amavano classificarsi in sieropositivi e sieronegativi, sapevo un'algebrina che madonna ragazzi.

venerdì 3 novembre 2006

La questione dei peli.

Nel 1991 ero un bambino felice - specie verso il far del giorno.
Andavo alle scuole medie, prendevo i miei bei votini alla faccia di tutti gli altri cretini dei miei compagni, mi si faceva le copertine ogni pié sospinto; e ridevo, e come se ridevo.
Mi si canzonava ogni dì, nell'ordine per:
- bassezza
- talpiopia
- orecchie a sventola
- culo a mandolino.
Ero, insomma, nella fase ancora impubere tra l'istrione e l'istrice da ora-la-metto-sotto-splat; mi avviavo, ecco, verso quella adoraaabile fascia teen che, in presenza di qualche chilo in più che forse allora c'era pure, avrebbe fatto di me una tin. Una goduria di vita - scocca unica, non replicabile.
La pubertà coming-soon, le sbrodolature notturne, i puerili innamoramenti, i primi rossori; e, per quel che mi riguarda, la vexata quaestio dei peli. Peli neri, peli virili, peli maschi.
Sui polpacci, sul primo pérone, sulla coda della tibia, finanche giù, sul dorso dei tarsi; ciuffi, mucchi, macchie di leopardo di peli vivi, vegeti, scuri come l'ebano che forgiò le prime capanne dei nativi preistorici.
Nel 1991 ero ancora, nolente o volente come poi mi sarebbe capitato con sempre maggior normalità, in anticipo sui tempi. Un ante litteram di undici anni ancora da compiere. Adulto in mezzo agli infanti, a cui era dato il permesso di toccare i primi culetti, inebriarsi di afrori muliebri, titillare cuori & clitoridi. Vivevo la mia ipertrofia tricotica con fierezza wasp e falsa modestia.

Nel 1992, senza che io me ne rendessi conto, si sparse la mania di King Kong. Era dal 1933 di E.B. Schoedsack e Merian C. Cooper che il mondo se l'era dimenticato, e ora ricompariva per rimettermi in riga. Dopo l'umiliazione di dover assistere alla trasformazione licantropica di tutti i miei vicini e lontani scolastici, il destino gramo non mi concesse neppure la par condicio come scappatoia: i miei peli datavano ancora 1991 e avevano come scadenza addirittura un inquietante 2013-la fortezza. La scappatoia, allora, giunse da un quasi omonimo beffardo: il tubo di scappamento. Inalavo benzina a 1700 lire al litro, con sommo disprezzo del paterno pieno antelucano, e stavo di nuovo bene. Sennonché, il fattaccio: un peletto di fabbrica Dahiatsu, che lì non doveva stare, si introdusse nel mio orifizio orale spalancato, andando a infilarsi nell'entroterra gutturale.
Un coff, coff espulse quello e il veleno non ancora verde, e io vi ho potuto raccontare questa educativa tregenda.