martedì 26 gennaio 2010

Cose turche



















I bagni turchi, in slang locale cosiddetti Hammamet, sono caldi terapeutici per turisti costosi in sostanza un'inculata. Come vedremo, letteralmente. Tutta la Turchia è del resto un'inculata, io per esempio la consiglierei a me stesso solo se per sbaglio fossi certo di essere poi spedito in Ruanda che un po' sì fa schifo pure quella ma vuoi mettere i negri da schiavizzare durante i revival del bel tempo che fu? Ad ogni modo, uno che decide di andarci, prima deve superare la mitica difficoltà numero uno: trovarlo. Questo perché, sopratutto a Istanbul, è come stare a Babele, solo non per il fatto della confusione delle lingue, bensì delle strade. Io per esempio una volta andai a destra invece che a sinistra e mi trovai in Ruanda che un po' si fa schifo pure quella ma vuoi mettere i negri da schiavizzare durante i revival del bel tempo che fu? Poi di solito arriva, come un fulmine a ciel sereno, la difficoltà numero due: è chiuso. Sì d'accordo, c'è il campanello per suonare ma io a quel punto mi sono già stufato, fatemele facili le cose no?, e via dicendo sennò a quel punto, che mi costa?, vado in Ruanda che un po' si fa schifo pure quella ma vuoi mettere i negri da schiavizzare durante i revival del bel tempo che fu? La terza e ultima difficoltà, poi, dico una volta entrati e tutto quanto, è che di solito i bagni turchi non esistono, sono solo luoghi comuni creati per i turisti -spesso i più finocchi!- e al loro posto uno scopre che in realtà c'è il Bar Rino (bar-rino!) che sì va beh è carino però a quel punto quello lo trovavo anche in Ruanda che un po' si fa schifo pure quella ma vuoi mettere i negri da schiavizzare durante i revival del bel tempo che fu? Il preambolo serviva, oltreché per creare atmosfera (parecchia!), a spiegare un altro luogo comune tipico che la forza di gravità ha creato intorno alla Turchia: sono cose turche. Poi c'è anche da dire che il bagno turco lo puoi fare da solo (ma a quel punto, che mi costa?, allora me lo faccio in Ruanda che un po' si fa schifo pure quella ma vuoi mettere i negri da schiavizzare durante i revival del bel tempo che fu?) oppure c'è l'omino che lo fa per te e a quel punto, se volevo restare sporco, poteva restare in Ruanda che in questo caso fa parecchio schifo e punto. Se scegli l'omino perché da solo non sai come si fa un tipico bagno turco, vuol dire che di cognome non fai Ozpetek ed è un bene. In pratica, dopo lo gnudamento che per fortuna avviene in privato perché uno pensa che i turchi sono gente riservata col cazzo!, l'omino ti conduce mano nella mano nel luogo virginale dello stupro. Indossi dei sandaletti col tacchetto più froci di Harvey Milk (lui sarebbe felice del paragone!) e, giocoforza, basculi il culo alla mercé dell'omino che intanto sta spompinando un angelo in questo luogo virginale, ma finirà presto non vi preoccupate. Quando è di nuovo tutto per te, l'omino ti rignuda (perché nel frattempo t'aveva avvolto in un telo da mare di quelli a sconto a Cesenatico) e con un guanto tipo quelli per i peli dei gatti ti riduce la pelle tutta bella liscia come quella dei grandi ustionati al reparto dell'ospedale di Dachau. Lo stereotipo più trito vuole che l'omino ti agganci la prostata con il dito indice a martello, e infatti è vero. Dopo un po' di sollevamento pesi per dimostrarti quanto sono machi i turchi, molti sciaquii e un tris di sconocchiamenti delle vertebre, l'omino si metterà inderogabilmente in bocca il ditino odoroso come un bimbo ed è quella la fregatura di tutti i bagni turchi come non ce ne sono manco in Ruanda che purtroppo è una nazione che al mondo esiste: tu non resisti a tanto afrore infantile e ci sta che lo abbracci come non hai abbracciato neanche tua mamma dopo che l'hai fatta a pezzi e hai minto sopra il suo corpo (chissà quale pezzo ne ha beneficiato di più?).

E' lì che l'omino, approfittando di tutto il tuo stupore per le cose del mondo e per le relazioni interculturali, ti derviscia e ti inkebabba senza precuazioni. Sono cose belle.

sabato 16 gennaio 2010

L'arrivo a Roma















Ogni volta che arrivo a Roma -il regionale da Arezzo, dopo le tante soste, va a incunearsi immancabilmente al binario numero uno o, appena più in là, al terzo, come a rivendicare un primato di orgoglio che i quadri ferrovieri gli hanno negato dalla nascita- mi prende il magone. Dal treno, la prospettiva è sbilenca e univoca e quando vedo affiancarsi la via di una tangenziale teoricamente anonima ma che, in pratica, è solo e soltanto quella là, io già sono preda di ubbie indefinibili. Poi passano, come un esercito in fila in attesa della ripassata di sguardo del capitano, l’edificio in vitro di Sky, qualche fintantica trattoria, i pini marittimi che in Italia dov’è che non sono. Già lo so, che sto arrivando, ma il culmine arriva poco dopo: con lo scorrere, invariabile, di palazzi che, oh sarà pure improbabile!, ma paiono esistere solo a Roma: sono rossi, tozzi, squadrati, massicci, ed è chiaro in un lampo: stanno riflettendo, architettonicamente, tutta la tronfia e poco duttile violenza carismatica del vecchio dittatore. Un poco, anche, del suo squallore di onnipotenza, un poco del suo gusto estetico. I binari, una lunga colata di cemento, due sprazzi impressionistici di verde e questi cosi così. Roma è alle porte, e il suo tramite è l’ingresso in città visto da una metropolitana dipinto da Hopper. Tutto questo non solleva il magone, anzi. Lo stimola (forse: lo crea), lo alimenta, in parte lo sazia. Già, perché Roma non è magnanima; Roma, metropoli di oggi che sa quanto è pesante il passato e pertanto può predire il futuro, non ti concede tanto tempo per crogiolarti nelle tue indicibili nostalgie, nelle tue proprie malinconie. Dalla tangenziale, se il treno non è più lento del solito, non ci sono più di cinque minuti per arrivare a destinazione, al capolinea estremo che è lì a dirti caput mundi di qui non si passa o si scende o si torna indietro. E lo scendere significa già precipitare nei tempi di Roma e, quindi, abbandonarsi al caos e amen. Nostalgie e malinconie riverranno, tranquilli, perché Roma è impossibile viverla tutta, e quindi, nel quieto cantuccio del proprio quartiere, la vita, facendosi di nuovo un po’ provinciale, si fa anche di nuovo sola. La vita di quartiere, una sorta di àncora di salvataggio, dove tutto -anche la solitudine- è riconducibile a una realtà, per quanto ambigua e sfuggente, e ti dà un senso di concretezza, pertanto di -sua- superabilità. Che a dare retta a Roma si finirebbe soli e disperati, incapaci di comprendere sé stessi e gli altri, tutti pazzi. La follia di essere eternamente singoli nella folla; perché ti mangia, Roma, se non stai attento, come fa Sordi con i suoi maccaroni. E attento è dura esserlo, a Roma: lei fa di tutto -con la Storia, con la cultura, con la natura, con l’esibizione di Sé- per distrarti, per farti mollare la presa e poi, zac!, un lampo e sei fritto, come i fiori di zucchina che da altre parti, nei baracchini, mica ce li vedi. Un vampiro che ha bisogno delle storie minime di ognuno di noi per nutrirsi, digerendole, metabolizzandole e, saziato, risputarle sotto forma di Storia, quella con la S maiuscola. Che Roma, forte e debole per questo (e lei lo sa!, la meretrice, sempre disposta dunque a vendere e vendersi), ha bisogno degli esseri umani, del loro sangue, (in)consapevolmente votati al suo sacrificio; e i suoi abitanti, i romani, sono di Roma, mercenari e scagnozzi che ne hanno ormai assorbito la filosofia: ti chiedono e non ti danno, ti impongono senza ascoltarti, ti usurpano sapendo di calpestarti e credendo, con il compiaciuto candore di chi sa di potersi permettere ogni cosa, di farti un piacere, o un dovere alla meno peggio. Che essere seppellito da suole romane non è mica cosa da poco, è il loro ammicco.
Eccomi, mi vedo arrivare alla Stazione Termini, una scrollata e la maniglia va giù, la porta si apre, il predellino si abbassa. Sono pronto a scendere e, al solito, non ho tempo di pensarlo come atto, soltanto di compierlo. Il vagone è alla mia sinistra e alla destra già si intravedono i risultati degli scempi economici nazionali. Già Roma mi ostacola nella scelta e mi dice dove andare. Non c’è che una direzione, quella davanti a me -tirare dritto, pensando a sopravvivere e menefregandosi degli altri. Con la valigia che pesa, un altro ostacolo che mi forzo di non considerare, mi incammino. Non faccio in tempo ad arrivare alla hall -il solito edicolante, il solito bar, la solita scalinata verso il piano inferiore, quello che conduce verso le linee metropolitane, il cuore infernale della città. Mi sento già perduto, mi accoccolo lì dove sono, intralciando il passo, mi metto a piangere lacrime di indifesa. Hanno uno strano sapore dolciastro. Strano perché purtroppo non piango spesso. Ho, causa forte miopia, il sacco lacrimale arido come il Sahara. Senza neanche un’oasi di fertilità che non sia, di tanto in tanto e finalmente, l’estrema disperazione. Resto lì il tempo di capire, di nuovo, che non ci posso, che non ci puoi fare niente.

Mi rialzo e sono tuo, Roma. Ora scendo giù, remissivo, senza sfida, nelle tue viscere.

sabato 2 gennaio 2010

Lettera all'America

















Cara America,
forse ti sembrerò infantile, però io di notte mi addormento pensando a te e di mattina mi risveglio che ancora penso a te come se non fosse passato l'indomani. Tu dirai che è per via dell'insonnia, e forse hai ragione, però t'assicuro: fra una sega e l'altra, perché con qualcosa dovrò pur ammazzare il tempo, è con sincerità e rettitudine che mi ti figuro. Stai lì, tutta dritta impalata, con quell'abito a stelle e strisce che ti dona una meraviglia: che figurone fai! Ma giovanina che sei, poi. Sei proprio un amore, guarda. Non c'hai una grinza manco a pagarla e tutta la pelle sembra quella di una palla di pelle di pollo di quelle che Apelle figlio di Apollo usava per far stare a galla tutti i pesci figli di Ippocrate. Ti stringerei tutta e, se potessi, ti infilerei il mio cucchiaino nella tua vaschetta di Motta al tartufo nero. Lo accetteresti? Ho paura a chiedertelo direttamente e allora lo scrivo in questa costituzione qui: è un comma sulla ricerca della felicità. A proposito: com'è che il tartufo bianco lo finisci sempre subito di prima mattina? Ah senti, so anche che per il ballo di fine scuola speri di essere invitata da Ronald Castrocaroterme, che gli fai il filarino da qualche mesata, però io te lo dico lo stesso: lui è un brutto ceffo e io invece mi sono innamorato di te. Come ti vedo, sto bene e mi piglia la voglia di pensare che se io sto bene allora dovresti stare bene anche tu. Invece gli adulti cattivi mi dicono che non te la passi bene, che c'hai la crisi e sgomento di rabbia mi dico: beh, in quel caso lì vai affanculo e lasciami in pace oh. Poi però mi pento e ci ripenso e ti ripenso e sgomento di affanno mi chiedo: ma i bubboni le saranno venuti? Quando a me venne la varicella, me ne grattai via uno e a tutt'oggi ho un'ulcera a forma di South Dakota vicino al bilìco. Lì è un altro momento storico in cui mi sono innamorato di te, ma quanto sarò carino? Saperti parte di me mi ha fatto sacrificare una sborrata in tuo onore. Non so, vedi tu se vuoi rendermela in qualche modo: io sono di nuovo carico. Poi c'hai 'sto fatto che sei sempre di buon umore che proprio mette di buon umore, e anche il fatto che comunque non è che azzeri ogni chance a me un pochino piace: cioè, uno ci prova con te e forse gli va bene, ma anche se non gli andasse bene alla prima, tu gliela rifai vedere, quello si ringrilla, ci riprova e stavolta, miracolo!, panfete!, gli va bene. Com'è accaduto con Robertino del Delaware per dire, no? Ecco, lì mi sei piaciuta un casino, e sono sicuro che prima o poi sarà la volta buona anche per me. L'unica cosa è: non ti far attendere troppo sennò mi tocca violentarti e non sta bene. Okay, quel che volevo dirti te l'ho detto... ciaoo. :-)

Con affetto,
Fontina Boy

P.S. Ah no, dimenticavo: ma un po' di dieta mediterranea ogni tanto no, eh? Va bene, come non detto.