sabato 16 gennaio 2010

L'arrivo a Roma















Ogni volta che arrivo a Roma -il regionale da Arezzo, dopo le tante soste, va a incunearsi immancabilmente al binario numero uno o, appena più in là, al terzo, come a rivendicare un primato di orgoglio che i quadri ferrovieri gli hanno negato dalla nascita- mi prende il magone. Dal treno, la prospettiva è sbilenca e univoca e quando vedo affiancarsi la via di una tangenziale teoricamente anonima ma che, in pratica, è solo e soltanto quella là, io già sono preda di ubbie indefinibili. Poi passano, come un esercito in fila in attesa della ripassata di sguardo del capitano, l’edificio in vitro di Sky, qualche fintantica trattoria, i pini marittimi che in Italia dov’è che non sono. Già lo so, che sto arrivando, ma il culmine arriva poco dopo: con lo scorrere, invariabile, di palazzi che, oh sarà pure improbabile!, ma paiono esistere solo a Roma: sono rossi, tozzi, squadrati, massicci, ed è chiaro in un lampo: stanno riflettendo, architettonicamente, tutta la tronfia e poco duttile violenza carismatica del vecchio dittatore. Un poco, anche, del suo squallore di onnipotenza, un poco del suo gusto estetico. I binari, una lunga colata di cemento, due sprazzi impressionistici di verde e questi cosi così. Roma è alle porte, e il suo tramite è l’ingresso in città visto da una metropolitana dipinto da Hopper. Tutto questo non solleva il magone, anzi. Lo stimola (forse: lo crea), lo alimenta, in parte lo sazia. Già, perché Roma non è magnanima; Roma, metropoli di oggi che sa quanto è pesante il passato e pertanto può predire il futuro, non ti concede tanto tempo per crogiolarti nelle tue indicibili nostalgie, nelle tue proprie malinconie. Dalla tangenziale, se il treno non è più lento del solito, non ci sono più di cinque minuti per arrivare a destinazione, al capolinea estremo che è lì a dirti caput mundi di qui non si passa o si scende o si torna indietro. E lo scendere significa già precipitare nei tempi di Roma e, quindi, abbandonarsi al caos e amen. Nostalgie e malinconie riverranno, tranquilli, perché Roma è impossibile viverla tutta, e quindi, nel quieto cantuccio del proprio quartiere, la vita, facendosi di nuovo un po’ provinciale, si fa anche di nuovo sola. La vita di quartiere, una sorta di àncora di salvataggio, dove tutto -anche la solitudine- è riconducibile a una realtà, per quanto ambigua e sfuggente, e ti dà un senso di concretezza, pertanto di -sua- superabilità. Che a dare retta a Roma si finirebbe soli e disperati, incapaci di comprendere sé stessi e gli altri, tutti pazzi. La follia di essere eternamente singoli nella folla; perché ti mangia, Roma, se non stai attento, come fa Sordi con i suoi maccaroni. E attento è dura esserlo, a Roma: lei fa di tutto -con la Storia, con la cultura, con la natura, con l’esibizione di Sé- per distrarti, per farti mollare la presa e poi, zac!, un lampo e sei fritto, come i fiori di zucchina che da altre parti, nei baracchini, mica ce li vedi. Un vampiro che ha bisogno delle storie minime di ognuno di noi per nutrirsi, digerendole, metabolizzandole e, saziato, risputarle sotto forma di Storia, quella con la S maiuscola. Che Roma, forte e debole per questo (e lei lo sa!, la meretrice, sempre disposta dunque a vendere e vendersi), ha bisogno degli esseri umani, del loro sangue, (in)consapevolmente votati al suo sacrificio; e i suoi abitanti, i romani, sono di Roma, mercenari e scagnozzi che ne hanno ormai assorbito la filosofia: ti chiedono e non ti danno, ti impongono senza ascoltarti, ti usurpano sapendo di calpestarti e credendo, con il compiaciuto candore di chi sa di potersi permettere ogni cosa, di farti un piacere, o un dovere alla meno peggio. Che essere seppellito da suole romane non è mica cosa da poco, è il loro ammicco.
Eccomi, mi vedo arrivare alla Stazione Termini, una scrollata e la maniglia va giù, la porta si apre, il predellino si abbassa. Sono pronto a scendere e, al solito, non ho tempo di pensarlo come atto, soltanto di compierlo. Il vagone è alla mia sinistra e alla destra già si intravedono i risultati degli scempi economici nazionali. Già Roma mi ostacola nella scelta e mi dice dove andare. Non c’è che una direzione, quella davanti a me -tirare dritto, pensando a sopravvivere e menefregandosi degli altri. Con la valigia che pesa, un altro ostacolo che mi forzo di non considerare, mi incammino. Non faccio in tempo ad arrivare alla hall -il solito edicolante, il solito bar, la solita scalinata verso il piano inferiore, quello che conduce verso le linee metropolitane, il cuore infernale della città. Mi sento già perduto, mi accoccolo lì dove sono, intralciando il passo, mi metto a piangere lacrime di indifesa. Hanno uno strano sapore dolciastro. Strano perché purtroppo non piango spesso. Ho, causa forte miopia, il sacco lacrimale arido come il Sahara. Senza neanche un’oasi di fertilità che non sia, di tanto in tanto e finalmente, l’estrema disperazione. Resto lì il tempo di capire, di nuovo, che non ci posso, che non ci puoi fare niente.

Mi rialzo e sono tuo, Roma. Ora scendo giù, remissivo, senza sfida, nelle tue viscere.

3 commenti:

Caterina Nepi ha detto...

Bah! Ho scovato anche il blog di un mio compagno di avventure amerrigane... Fra l'altro anche parecchio bello, come blog.
Via allora a questo punto ti lascerò anche l'indirizzo del mio almeno ti fai du risate leggendo gli scleri quotidiani di questa povera stiupita XD

www.friendofthenight.splinder.com

E come dicono a NY, salutam'a sorr'ta!

Caterina.

Fontina Boy ha detto...

Ottimo, Caterina!

Tra l'altro questo umile e "parecchio bello" blog l'anno scorso diede un quel che di pepe che ci vuole in ogni anno scolastico proprio nel tuo beneamato liceo, non so se la voce arrivò anche nella tua classe... altrimenti un altro giorno a NY ti racconterò.

Mo' squarcio il tuo, di blog.

Acidshampoo ha detto...

Caterina Nepi e Fontina Boy, io non vi conosco ma secondo me vi trovereste troppo bene a farvi reciprocamente l'amore.