lunedì 31 maggio 2010

Conosco le pieghe delle tue mani















Conosco le pieghe delle tue mani
a una a una
il nodo grosso delle
falangi e della mia
gola
le unghie brevi, e curate,
gli incavi della vita
gli scarti di quella
vena
il tondo dei polpastrelli
le dita digitali
si muovono sottili come
alici sul pelo dell’acqua
le sfoglio
e sono
pagine di un romanzo
non scritto
di cui esistono solo
l’inizio e la conclusione
due parole per il tutto
le stesse
indicibili da sempre
o da mai.

lunedì 10 maggio 2010

La tua casa















Conosco

le vene di

tutto il paese.
Vene d’acciaio.

Conosco

tutte le arterie
di questo e
di altri paesi.
Arterie di fumo.

Conosco
e sono instabili
le rotte fatte
di mare e d’aria.
Se non tutte,
quasi.

Niente da fare.

Fra tutte le cose
fra tutte le case
compresa la mia
la tua
è l’abbraccio stretto
è il respiro fermo
è la mammella che nutre
è il mondo in una stanza

anche quando
ti allontani,
sei sempre lì.

mercoledì 5 maggio 2010

H di Ospedale

La maggioranza degli esseri umani ci nasce e poi, anni dopo, a volte pochi, a volte troppi, mai giusti, ci muore in ospedale. Per quello più o meno tutti hanno paura della morte, non riconoscono il luogo per quel paradiso che è, un lazzaretto di dolore e umiliazioni ma anche di bambini che vengono al mondo a volte pure deformi però vuoi mettere a volte no affatto, non se lo ricordano che lì sono successi le cose più belle della vita, tipo il nascere, l'essere picchiati con la spranga per emettere il primo ruttino (ché, cazzo!, non sta bene ruttare), o il morire. Io, che invece mi devo sempre far riconoscere (una volta, pensate un po', durante la foto di classe in prima media, mi venne da starnutire e nella foto in pratica si vedono uno Sgorbions -il ganziale Matteo Cappereo però!- e tanti cittini con la chiostra del sorriso di chi dice 'salute' e non 'lox and creamcheese'), ci ho vissuto praticamente i miei primi tredici anni della vita. La-à, al bacio. Del resto negli anni Ottanta gli affitti di una camerata da trecento indiani di Calcutta con letto e tv-color (flebo a pagamento per conto dei trafficanti di organi) erano così bassi che ancora conveniva barricarcisi dentro, con il riflusso degli anni Novanta è poi convenuto guarire purtroppo e anche il mio corpo, mio malgrado visto che ormai mi ci ero abituato parecchio benino, ha seguito il trend. Prima invece, fra palle da far cadere in buca, ascessi da rendere meno eccessivi e figli illegittimi avuti con infermiere di varia natura da rispedire al Grande Architetto, non sapete che momenti di sollazzo. Tanto che una volta provai pure a scrivere un romanzo, giacché lì dentro c'ero e lì dovevo restare, ma dopo un 345 pagine pubblicate in prima edizione da Bompiani con lo pseudonimo di Alberto Moravia, le stesse mi iniziarono a risultare indifferenti e la piantai lì. Ma tornando con un volo pindarico all'epoca felice che fu, l'ospedale mi era così proprio che io pensavo proprio di averlo, possederlo tutto per me, come tanti bambini coetanei potevano avere la gigantografia robot di Goldrake e altri la patinatissima leucemia a macchie di leopardo. Ho Spedale, come scrivevo nel mio temario, solo che la H non si pronuncia in italiano e tutti si sbagliano a scrivere, pensavo, mentre il cuore sobbalzava per ogni gol dell'ala destra dello Spedaletto. Immaginate voi la delusione quando, una volta dimesso per sempre e sprofondato nella vita senza flebo senza infermiere che hai voglia a dire ma fra un catetere e l'altro un succhiotto al lillo non te lo facevano mica mai mancare, ho scoperto che Hospital si scrive con la O.

Se non altro la H sui tetti degli Ospedali dove posteggiano gli Helicopteri sta ancora per Hanno ucciso l'uomo ragno, una canzoncina deficiente che all'epoca piaceva a tutti me compreso.