venerdì 3 agosto 2007

Ditale.

Nel 1991, e non è passato nemmeno tutto questo tempo, ragazzi e ragazze, in fatto di sesso, erano molto meno smaliziati. Oggi no, è tutto un dare di qua e di là; una volta, e neanche così in là con gli anni, sarà stata la Perestroijka o il KGB non so, s'era più calmi, quasi morigerati. C'erano cose da maggiorenni, non necessariamente cosacce, tipo andare all'università, e c'erano cose per ragazzetti come noi, noi nel 1991, ragazzi delle medie. Ragazzi e non più bambini, come i maestri magicamente diventati, non senza difficoltà, professori. Prodromi della perdita dell'innocenza, e della felicità - per sempre. Le cose in voga erano tante, pigliare in giro il compagno che puzzava, parlare senza sapere cosa fossero di mestruazioni, scambiarci i giochini del Sega più degli altri concorrenti, divorare horror in barba ai genitori al lavoro, cose tutte innocue, che oggi pare un'eternità, e non è invece il dopoguerra, ma fra tutte ce n'era una che era più in voga di tutte. Senza che sia mai stata teorizzata in arte, la pratica del ditalino correva di moda, nel 1991, anno delle medie, ingresso nell'età adulta, addio giostre per bambini, Topolino pussa via, che barba Jack London, Richard Scarry un coglione, il peggior periodo della vita che possa capitare, ma si capisce solo dopo, forse alcuni mai. Peggiore non significa che non fosse anche il migliore, beninteso. Il ditalino, questo dinosauro. Le dita, oggi, abituate alle comodità tattili della tastiera, non use alle asperità della penna sul foglio bianco sul banco scabro, sono deboli e non ce la farebbero, loro, le dita, a sostenere l'emulazione virile di un pistola laggiù, che oggi, precoci in tutto, società accelerata, gli si preferisce, alle dita, una volta sempre più belle e duttili inoltre. Vuoi anche, chissà, per quei ditalini fatti o, lo so che non torna, per quelli ricevuti, che qui sconti e differenze non se ne fanno.
Io, 1991, sempre allora, ebbi la fortuna di assistere a un'epifania ditalinica. Una gita di un giorno, da qualche parte in Toscana, o era altrove?, due, forse tre, magari quattro classi, un unico pullman. Corpi pigiati, umori téte-à-téte, odori come compagni di banco, indivisibili, gelosi: e là, in mezzo al pullman, ben nascosta, ma in realtà eretta come una statua di Figia, la Severi, con quella faccia suina, ripetente da lustri, più grande di tutti noi, libidinosa come poche, ché lei, più grande, la fa vedere e, alla bisogna, la dà anche. Pare a tutti, anche se io potrei smentire; alle dita di sicuro, e forse anche a qualcosa di più che lei, più grande, enorme, mitica, congelata per sempre alle medie, può. Là, in mezzo a quel pullman, magari una tendina a occultare il misfatto, sono sopra di lei, uno, due, tre, tanti, troppi, anche dita insospettabili, di miei migliori amici, gente tutta morta oggi, che non potrei guardare più con lo stesso occhio vitreo, loro dei adesso, carne contro carne, il nero, il folto là sotto, dabbasso. Un ditalino e ti pareva, nel 1991, anno in cui esplose, di aver avuto a che fare con Claudia Schiffer.

Io, di quella giornata, ricordo un vento tremendo, mi sa un maestrale, e un panino di pane al prosciutto cotto, il solito. Poco più, se non - ora che ci penso - un afrore primitivo, un umidiccio sepolcrale che, allora, come ora, non conoscevo. La generazione di oggi che racconterà?